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L’elezione di Juncker e il futuro dell’Unione Europea

Creato il 15 luglio 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Davide Vittori

Dopo il risultato delle elezioni europee degli scorsi 22-25 maggio si è aperta una discussione tra le varie cancellerie in merito alla nomina del nuovo Presidente della Commissione Europea. La designazione del Consiglio ha visto la maggioranza convergere sul nome di Jean-Claude Juncker, candidato popolare alla presidenza e accreditato con una maggioranza relativa dei seggi nel Parlamento Europeo. Una nomina che, però, ha incontrato la contrarietà ferma da parte del Premier inglese David Cameron. Partendo dal risultato elettorale e dalla valutazione politica che dovrebbe discendere dal voto, il caso in questione è esemplificativo delle maggiori sfide che la nuova leadership europea si troverà ad affrontare a livello dei rapporti con il Consiglio Europeo.

Le elezioni europee e il nodo Juncker – Jean-Claude Juncker è stato designato dal Consiglio Europeo per la carica di Presidente della Commissione Europea grazie ad un voto a maggioranza qualificata; l’intesa tra i 28 Paesi dell’Unione non si è raggiunta, in quanto il premier britannico David Cameron e il Primo Ministro ungherese Viktor Orbán hanno fino all’ultimo osteggiato tale nomina, chiedendo esplicitamente (pratica non consueta nel Consiglio) un voto che li avrebbe visti in minoranza e senza i numeri per formare una blocking minority.

Molti intellettuali di spessore si sono spesi per la nomina di Juncker alla Presidenza: con il Trattato di Lisbona, infatti, il Consiglio Europeo avrebbe dovuto esprimere un nome tenendo conto dell’esito delle consultazioni, appuntamento in occasione del quale le cinque famiglie europee (socialisti, popolari, liberali, verdi e sinistra radicale) hanno presentato i propri candidati. Avendo ottenuto un maggior numero di seggi Juncker sarebbe dovuto essere il candidato in pectore. Pur riconoscendo i limiti di un tale sistema, l’appello ritiene questo timido passo “incoraggiante” per la democrazia europea poiché «ha le potenzialità di consentire ai cittadini europei di impegnarsi nella politica europea molto più di quanto siano stati in grado di fare fino ad ora». «Proporre una persona diversa a Juncker sarebbe un rifiuto a riconoscere le modifiche del trattato» secondo i firmatari; infine «comprometterebbe ulteriormente le fragili credenziali democratiche dell’UE, facendo il gioco degli euroscettici di tutto il continente».

Vi sono, però, altre ragioni che, senza dover per forza sposare una causa euroscettica, dovrebbero suggerire una maggior cautela nel promuovere questo sistema “imperfetto”. Questo perché tali “imperfezioni” derivano da un substrato politico centrale per la formulazione di nomine a livello europeo.

Leggi proporzionali per avere esiti maggioritari – Da un lato, il Partito Popolare Europeo (PPE), che pure ha raccolto il 29,43% a discapito di un 25,43% del Partito Socialista Europeo (PSE), ha ottenuto in termini assoluti meno voti del PSE [1] ed ha perciò usufruito di una sproporzione nell’assegnazione dei seggi spettanti ad ogni Paese membro (1 rappresentante per ogni, 875.160 abitanti in Spagna, 1 ogni 76.667 abitanti in Lussemburgo, 11 volte e mezzo in più rispetto agli iberici). Già questo dato di per sé dovrebbe suggerire cautela nell’invocare una nomina come quella di Juncker attraverso una procedura di voto simile al Senato statunitense, seppure con i parlamentari europei in numero diverso da Stato a Stato, ma la cui ratio sottostante è più simile a quei sistemi europei improntanti ad una maggiore (se non massima) inclusione di tutte le rappresentanze politiche a discapito della governabilità. Dall’altro lato, difatti, è bene ricordare che tutte le leggi nazionali per le elezioni europee hanno un forte impianto proporzionale, ragion per cui la determinazione di un vincitore, a rigor di logica, sarebbe molto difficile da ottenere, a meno di ritrovarsi un partito europeo con maggioranze (pressoché) assolute in ogni singolo Paese. Non essendo ancora stata approvata una legge elettorale europea, ma condividendo i 28 lo stesso impianto normativo – un proporzionale con basso o nullo sbarramento – si dovrebbe essere consequenziali non invocando semplicemente una nomina da parte del Consiglio, ma facendo svolgere, in anticipo rispetto al Consiglio Europeo successivo alle elezioni, i cosiddetti mandati esplorativi anche all’interno del Parlamento Europeo per verificare preventivamente che i candidati abbiano una maggioranza, possibilmente “politica” e non legata alle forzate larghe intese tra popolari e socialisti che hanno contraddistinto il consociativismo europeo. Pur non equivalendo l’indicazione di un nome ad un’elezione, restano numerose le riflessioni sulla possibilità di una nomina automatica da parte del Consiglio senza un diretto coinvolgimento del Parlamento e sulla base delle discussioni a livello intergovernativo. L’integrazione politica europea è, quindi, di là da venire e l’intergovernamentalismo ancora sovrano nelle istituzioni europee.

Il ruolo preminente del Consiglio Europeo – Mancando una tale impostazione, la politica europea – da quella economica a quella estera e di difesa – rimane evidentemente ancorata saldamente al Consiglio Europeo, l’organo intergovernativo delle istituzioni europee. La crisi del debito sovrano non ha fatto altro che accentuare la spinta interstatale e bloccare quella federativa [2], con gli Stati sempre più protagonisti nel prendere decisioni vincolanti (anche al di fuori della stesse Istituzioni dell’Unione Europea, come ad esempio nel caso della creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità) e una Commissione Europea relegata a ratificare ex post decisioni cruciali e su cui avrebbe una voce sostanziale in capitolo. Il caso più eclatante riguarda i finanziamenti alle banche europee (4500 miliardi, il 37% del PIL europeo, dal 2008 al 2011): seppur configurabili come aiuti di Stato, la Commissione ha sempre ritenuto legittimi tali interventi, rimettendosi peraltro alla decisione (intergovernativa) dell’Eurogruppo, avvenuta nell’ottobre del 2008 all’indomani del fallimento della Lehman Brothers, di allentare la regolamentazione a causa della crisi del settore bancario [3].

Inoltre con l’eccezione italiana [4] e, parzialmente, quella tedesca, sembra venir confermata la teoria delle elezioni europee come elezioni di secondo livello. Questa teoria avanzata nel 1980 da Reiff e Schmitt [5] postula che le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo hanno in realtà effetti che trascendono le istituzioni sovranazionali e vengono, perciò, inestricabilmente legate ai differenti panorami nazionali: tenendo presente che il timing delle elezioni europee rispetto alle precedenti elezioni nazionali potrebbe causare una variazione degli outcomes, la second-order theory ritiene che i partiti di Governo tendano a perdere voti rispetto alle precedenti elezioni nazionali, mentre più è ampio il successo di un partito alle precedenti elezioni nazionali, più grande sarà la perdita di voti.

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Seggi ottenuti dai partiti euroscettici – Fonte: The Economist

Anche con l’indicazione di un candidato Presidente alla Commissione Europea, quindi, non sembra che sia emerso un quadro radicalmente differente rispetto alle elezioni del 2009, con la sola eccezione dell’avanzata dei partiti euroscettici che hanno raddoppiato i propri consensi, passando da 56 a 108 parlamentari. Piuttosto, si potrebbe argomentare che le elezioni europee possano essere servite, più che per eleggere un Parlamento Europeo, per rimodulare i rapporti di forza all’interno del Consiglio. La stabilizzazione del quadro politico italiano e il successo del Partito Democratico, hanno permesso a Matteo Renzi di poter strappare promesse rilevanti sul piano dell’allentamento dei vincoli di bilancio, mentre l’insuccesso in Francia e Spagna dei partiti socialisti ha di fatto permesso ai partiti conservatori di avere buon gioco nella scelta di Juncker. E se di rimodulazione dei rapporti di forza si deve parlare, la campagna di Cameron ne ha mostrato la solitudine al Consiglio. Una solitudine che però non è necessariamente una sconfitta del Premier britannico.

In un Paese tradizionalmente poco entusiasta dell’integrazione europea come il Regno Unito, l’euroscetticismo ha assunto una valenza politica nazionale con la promessa, avanzata nel 2013 e divenuta oggetto di dibattito all’interno della campagna elettorale, del Premier David Cameron, di indire un referendum sulla permanenza del proprio Paese nell’Unione. Un referendum sempre più plausibile dopo che lo United Kingdom Independence Party (UKIP), di chiara matrice euroscettica, ha ottenuto il 26,60% dei consensi assestandosi temporaneamente come primo partito. La campagna anti-Juncker ha, perciò, assunto una valenza prettamente nazionale poiché Cameron necessita di ristabilire la propria posizione critica nei confronti di Bruxelles, al fine di riguadagnare il terreno perduto non tanto a livello di consenso nelle elezioni europee, ma come viatico per la possibile rielezione nel 2015.

La sfida di Juncker – In uno scenario ancora frammentato, dove le elezioni locali e nazionali sembrano preoccupare maggiormente i partiti politici rispetto alle tornate elettorali europee, la sfida del prossimo Presidente della Commissione Europea sarà ardua. Per tre ordini di motivi.

Il primo concerne proprio il costante deterioramento delle relazioni inter-statali, con Paesi quali il Regno Unito, la Danimarca, l’Ungheria e la Repubblica Ceca sempre in sospeso tra la partecipazione alle istituzioni europee e la volontà di assecondare un elettorato sempre meno europeista adottando un ostruzionismo latente [6]. Juncker in questo caso dovrà riuscire, assieme al Presidente del Consiglio Europeo, a ricucire, ove possibile, gli strappi dovuti alla sua elezione. Inoltre, la crescita delle formazioni di estrema destra e di quelle populiste [7] potrebbe portare i partiti conservatori ad assumere posizioni più critiche nei confronti dell’Unione al fine di assicurarsi una fetta di quell’elettorato che i popolari hanno perduto in favore dei partiti in questione. Juncker avrà quindi il delicato compito di non foraggiare la retorica anti-tecnocratica, rivolta tanto alle Istituzioni quanto alla burocrazia di Bruxelles, per evitare che, al di là del loro successo europeo (ininfluente dal punto di vista numerico e di peso specifico all’interno del Parlamento Europeo), i partiti di estrema destra e populisti possano conquistare la maggioranza a livello nazionale, esercitando così il leverage della minaccia del referendum sulla permanenza dei propri Paesi all’interno dell’Unione (molto spesso le consultazioni popolari su questo tema da Maastricht in poi hanno sempre smentito le rosse previsioni filo-europeiste). Un compito non facile, ma di vitale importanza per la stessa sopravvivenza dell’Unione.

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Multiannual Financial Framework 2014-2020

Il secondo motivo concerne il Financial Framework cui Juncker dovrà sottostare per i prossimi sei anni (2014–2020). Si tratta di una contrazione non eccessiva, sicuramente dal forte impatto simbolico: 35,2 miliardi in meno rispetto al sessennio 2007-2013; tuttavia le riduzioni avvengono in due campi cruciali. I tagli ai fondi per la crescita sostenibile e, soprattutto, ai fondi di coesione economica, sociale e territoriale rispettivamente dell’8,4% e dell’11,3% non permetteranno all’Unione di essere percepita come attenta alla esigenze “localiste”, né tantomeno provvederanno a dirigere investimenti produttivi verso uno sviluppo sostenibile. A venir meno sono d’altra parte le risorse su cui l’Unione ha voluto investire maggiormente in termini di immagine: l’ambiente e la solidarietà tra gli Stati. E se il Piano Straordinario europeo degli investimenti proposto dalla Confederazione Europea dei Sindacati rimarrà lettera morta [8], allora la Commissione rischierà di trovarsi imbrigliata essa stessa in una crisi, non tanto economico-finanziaria, ma di legittimità in quanto presterebbe ancor più il fianco alle critiche di chi considera gli stanziamenti statali a favore dell’Unione una spesa inutile e destinabile a più meritorie azioni.

EU financial framework - Fonte: European Parliament
EU financial framework – Fonte: European Parliament

Il terzo, infine, concerne il rapporto sempre più delicato con gli Stati Uniti su due materie in particolare, la vicenda legata alle rivelazioni di Edward Snowden sullo spionaggio della National Secuirty Agency e il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP). Nel primo caso, la rottura, simboleggiata dall’espulsione del numero uno della CIA a Berlino da parte del governo tedesco, appare ormai consolidarsi. La questione che dovrà affrontare l’Unione Europea è ovviamente una rimodulazione delle attività di spionaggio in territorio europeo coordinate tra i 28 Paesi membri e la neonata diplomazia europea. Un tema spinoso perché da un lato tocca lo scarso potere diplomatico dell’Unione e dall’altro rischia di compromettere i rapporti non solo di alcuni Stati membri con Washington, ma anche di permettere agli Stati Uniti di mantenere condizioni favorevoli all’attività della NSA Stato per Stato. Nel caso del TTIP, invece, si sono alzate più voci, come quella del Presidente del Parlamento Europeo, nonché candidato alla presidenza della Commissione del Partito Socialista Europeo, Martin Schulz, perché le trattative divengano più trasparenti e che, quindi, tanto l’opinione pubblica europea, quanto l’organo elettivo dell’Unione, il Parlamento, possa rendere accountable l’Unione a partire dalla sesta tornata di incontri prevista dal 14 al 18 luglio, di cui, peraltro, si attendono ancora i dettagli.

Rimane, infine, il “dettaglio” della questione orientale dell’Europa, a partire dalla situazione ucraina per giungere agli accordi siglati nell’ambito della Eastern Partnership. Questi dossier non decreteranno semplicemente il successo o l’insuccesso della presidenza Juncker, ma saranno decisivi anche per il futuro dell’Unione Europea: nel bene e nel male.

* Davide Vittori è Dottore in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)

[1] Per un’analisi del voto europeo si veda Gros D., (2014), Who won Europe?, Project Syndacate, 17 giugno 2014

[2] de Schoutheete P. e Micossi  S., (2013), On Political Union in Europe: The changing landscape of decision making and political accountability, CEPS Essay, No. 4 / 21 February 2013.

[3] Si noti la contraddizione delle conclusioni di uno studio di Lanoo e Napoli (2010), Bank State Aid in the financial crisis:  fragmentation or lelvel playing field?, Bruxelles, Centre for European Policy Studies: i due autori ritengono che la Commissione abbia agito efficacemente nel controllare le banche, svolgendo un ruolo proattivo, come del resto era stata incoraggiata a fare dall’Ecofin. Questo però in un quadro in cui i due autori ritengono “retorica” la domanda sul mantenimento o meno di un mercato unico, con i vari Stati membri ad agire senza coordinamento e con diverse tipologie di aiuti. Delle due l’una: o il ruolo politico della Commissione è stato riconosciuto e in questo caso non può dirsi vero, data l’autonomia di intervento degli Stati; o la Commissione, come sembra, ha agito come un’“agenzia” tecnica, impegnata a far rispettare decisioni prese altrove (vedi il Consiglio Europeo). In quest’ultimo caso però il nodo dell’intergovernamentalismo è tutt’altro che risolto.

[4] Come è noto, in Italia il partito di governo ha ottenuto una maggioranza schiacciante alle recenti elezioni europee: tuttavia, tale “eccezione” risulta mitigata dal fatto che il governo era appena entrato in carica e potrebbe essersi anche avvantaggiato dal cosiddetto “honeymoon effect”, ossia la luna di miele tra elettorato e Governo nel primo periodo in carica del nuovo gabinetto.

[5] Reif, K., Schmitt, H., (1980), Nine second-order national elections: a conceptual framework for the analysis of European election results, European Journal of Political Research 8 (1), 3–45. Per un’analisi aggregata dei risultati delle elezioni europee all’interno della second-order theory, si veda Hix, S., Marsh, M., (2011), Second-order effects plus pan-European political swings: an analysis of European Parliament elections across time, Electoral Studies 30 (1), 4–15.

[6] Si vedano proprio i 4 opt-out dei primi due paesi il caso dell’elezione di Juncker per il Regno Unito e l’Ungheria o l’approvazione dello European Stability Mechanism nel dicembre 2011 per Repubblica Ceca e Regno Unito.

[7] Si separa qui il termine populista da quello di estrema destra, in quanto non tutti i partiti populisti sono di estrema destra e viceversa. Si veda a proposito Mudde C., (2004), The Populist Zeitgeist, Government and Opposition, Vol. 39, Issue 4, pp. 542–563 e Mudde C., (2007), Populist Radical Right Parties in Europe, Cambridge, Cambridge University Press.

[8] Il piano è disponibile ai siti internet http://www.fisac-cgil.it/wp content/uploads/2013/11/Piano_Investimenti_CES.pdf e http://www.fisac-cgil.it/wp-content/uploads/2013/11/Piano_Investimenti_CES.pdf

Photo credits: consilium.europa.eu

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