Siamo demoralizzati. Soffriamo un deficit di entusiasmo, determinazione e ottimismo. E un deficit etico. Oltre che da una crisi economica diventata ineluttabile e insanabile, poiché dopo non averla saputa riconoscere se ne è affidata la cura agli untori, la democrazia è compromessa da una delegittimazione dei partiti e dell´intera sfera politica.
A vent’anni da Tangentopoli la deflagrazione esplosiva, acida e risentita ha avuto come detonatore l’importazione padana del familismo amorale, rivelando un peste che non avrebbe dovuto sorprenderci, quella capacità di contagio irriducibile e indomabile dell’avidità premiata dal denaro pubblico: formidabili somme affidate arbitrariamente e discrezionalmente a soggetti , i partiti, il cui status giuridico incerto e ambiguo, soggetti privati non regolati da una legge che ne disciplini la democrazia e la trasparenza della vita interna.
La potenza di contaminazione è stata poderosa: in diciotto anni, 2,3 miliardi di euro hanno alimentato apparati, raggruppamenti politici artificiali o esauriti, giornali, fondazioni, clientele, famiglie rapaci, tesorieri fantasiosi, finanzieri spericolati , sindacati territoriali, pensatoi. L’humus che li ha fecondati e nutriti è stato da un lato il volume strabordante dei rimborsi; dall´altro, l´opacità della loro erogazione e la disinvolto e dissipata creatività della loro gestione.
Magari non è vero che tutti i partiti abbiano “peccato” di distrazione. Magari quelche bilancio è autenticamente lindo e pulito. Magari qualche organizzazione preferirebbe ricorrere a fonti di finanziamento alternative grazie alle contribuzioni volontarie di militanti e di simpatizzanti.
Ma è invece accertato che tutti i partiti hanno goduto di quel denaro nostro smodatamente e sfrontatamente. Come è altrettanto vero che tutti i partiti chiamano “antipolitica” quello che, originariamente, è invece legittima indignazione dei cittadini di fronte all’iniqua richiesta di sacrifici, alla conclamata disuguaglianza di tagli severi per i cittadini e indulgenti per i loro rappresentanti, al dissennato impoverimento dei diritti a fronte dell’intoccabilità dei privilegi.
Il discredito di questa classe politica avida , la diffidenza rabbiosa e indiscriminata che suscita nasce dalla sua limitatezza, ottusa e autodissolutoria, intenta soprattutto alla conservazione del suo status, dalla sua incompetenza che la crisi rende palese con tragica perentorietà. Ma anche dalla sua yubris, dalla sua rapacità, da quella sete inestinguibile di ricchezze, privilegi, quattrini, beni, case, auto, donne, diamanti, lingotti, vongole, vacanze, hotel di lusso. Come per una smania di affrancamento di elite provinciali, incolte, frustrate e limitate. Totalmente prive di valori di riferimento, indifferenti alla bellezza, se, salvo per il collezionismo mortifero e compulsivo del raccoglitore di falsi diari, non si conoscono trasgressioni commesse per arricchire la galleria di quadri, la biblioteca, la cultura personale, peraltro comunque ingiustificabili e illegali, chè non appartiene certo a questa sfera di interessi lo sconcertante suk di improbabili titoli di studio.
È per questo che il folto popolo degli sdegnati dovrebbe allagare la gamma dei suoi target. Sembra che abbiamo una classe dirigente che non sa e non vuole dirigere, che preferisce esimersi dalla complicata responsabilità di comportarsi da elite, che comunque sia e per quanto sia vuole solo “consistere e sussistere”, senza progetti, senza idee, consumando in fretta quello che voracemente conferisce a sé.
È terribile pensare che non esista una via virtuosa al potere. Che l’ambizione di esprimere le proprie capacità ineluttabilmente si trasformi nella prepotente esibizione dell’ego, che quelle che dovrebbero essere vocazioni si riducano alla tracotante soddisfazione di istinti, che l’esibizione di vizi privati li volga in pubbliche virtù, la furbizia, la licenziosità, l’arrivismo. Pensiamo al nostro “capitalismo nostrano”, a come ha rivoltato il paradosso utilitarista, quello che si immaginava che il desiderio umano dell’arricchimento investito nella produzione competitiva si potesse tradurre in ricchezza per tutti, anche se in diversa misura per ciascuno. E che dall’avidità potesse dunque nascere la prosperità. E a come invece in ossequio al brusco rovesciamento della sentenza del Mefistofele goethiano da parte dell’ideologia liberista dall’aver perpetuamente pensato il male e fatto il bene, distribuendo benessere magari a sua insaputa, si voglia convincere di pensare il bene e compia invece inesorabilmente il male.
E’ che l’avidità è una passione incontrollabile. Anziché tradursi in un processo virtuoso di prosperità tende ad avvitare in un circolo vizioso di sistematico arricchimento. Fine a se stesso. E’ così che il tacito accordo che assicura la base del consenso necessario si rompe. É ciò che è avvenuto dopo la fine della prima guerra mondiale provocando una crisi che sfiorò la catastrofe. È ciò che sta avvenendo ora che la crisi che ha travolto il sistema finanziario dei paesi capitalistici sta sfociando in una rovinosa recessione. Una crisi che da noi ha rotto tutti i patti di solidarietà tra cittadini e tutti i vincoli fiduciari con la classe dirigente, ostinatamente intenta all’accumulazione e protervamente decisa per questo a cancellare la sovranità dello stato e del popolo, che minacciano la sua squallida guerra di conquista.
Non siamo e non saremo come la Grecia, no, se non cercheremo di riprenderci la democrazia. Loro hanno tentato. Spetta a noi pensare al 25 aprile come una data non rituale. Imponiamo che venga indetto un referendum contro il golpe finanziario del pareggio di bilancio nella Costituzione.