Azzurro, il pomeriggio è troppo azzurro… ma Caligola dà una mano al governo, l’autunno sembra remoto, fuori senti la pipinara dei ragazzini per strada, nei giardini urbani ingialliti e nei cortili, niente compiti delle vacanze e la scuola è un appuntamento lontano. Ma al 5 settembre mancano poco più di una decina di giorni e c’è un posto dove l’inizio dell’anno scolastico è una resa dei conti cui tutti sembrano sottrarsi. Per quella inclinazione a preferire l’incoraggiamento di una narrazione all’impegno scomodo della realtà, sembrava confortante vedere i ragazzini della pingue e ubertosa Emilia far lezione sotto un albero, all’aperto come quelli del Congo e della Somalia nelle foto delle adozioni a distanza. Ma per i bambini emiliani non vale la stessa compassione, i quattrini dei nostri sms sono vincolati a politiche di investimento occhiute e arbitrarie, l’emergenza è finita per disposizione governativa, vigono i più dispotici e inefficienti comma 22: le imprese non possono riprendere l’attività se non si sono effettuate perizie e interventi per la sicurezza, ma senza lavorare, senza produrre non ci sono i quattrini per le valutazioni tecniche e le opere. Il decreto di riordino del servizio nazionale di protezione civile, che ha fatto dell’Emilia il suo laboratorio sperimentale a pochi giorni dalle scosse distruttive, ha conferito il potere di ordinanza “in deroga ad ogni disposizione vigente”, riserva fino ad ora della responsabilità politica al più alto livello – il presidente del consiglio -al capo del dipartimento della protezione civile.
E lui ( e non siamo sicuri sia una gran disgrazia) con successive ordinanze ha “minutamente organizzato gli interventi di soccorso, apprestando i mezzi al riguardo” non considerando in alcuno modo i concorrenti e irrinunciabili poteri delle istituzioni statali della tutela del patrimonio storico e artistico e del territorio. Ma ora le stesse autorità implacabili hanno stabilito che l’emergenza è finita e vige una vacanza di poteri e competenze. Le disposizioni in materia di copertura assicurativa stabiliscono scale meritocratiche di beneficiari di disastri, così che anche chi è diversamente vivo non è detto che possa continuare ad esserlo, non lo aiuta nemmeno la distribuzione caritatevole affidata alle banche che, si sa, non hanno gli stessi criteri della pietas, ma nemmeno dell’efficienza e della convenienza.
Raccontano amici che prestano la loro opera volontaria nelle zone colpite, che nel cono d’ombra mediatico e soccorrevole, nell’eclissi del governo e della politica con ostinata disperazione si cerca di ristabilire una parvenza di normalità. Ma è spettrale l’ordine silenzioso della militarizzazione che regna sulle macerie, sulle fabbriche chiuse, sulle scuole diroccate, sulle tende ancora alzate nell’afa canicolare in attesa del gelo padano. Nella dimissione dalle responsabilità del governo, di Confindustria, del sistema bancario che non intravedono nel tragico buio le rutilanti e sfavillanti premesse di altre smart city, pare che invece si affaccino con la costanza e la determinazione di un potere sostitutivo i solerti manager della criminalità.
Un paio di mesi fa Lucia Musti, procuratore aggiunto della procura della Repubblica di Modena e pubblico ministero per diversi anni alla Direzione distrettuale antimafia di Bologna, nel commentare il protocollo di legalità per la ricostruzione siglato in Regione Emilia Romagna aveva accenti dolenti: “le mafie fanno impresa. L’operatività in diversi settori economici costituisce ormai il primo sbocco dell’attività della criminalità organizzata. La mafia seria è quella imprenditrice, che agisce silenziosamente e non è certo quella che spara. È quella che ricicla, reimpiega in attività legali fiumi di denaro provenienti da attività illecite come il traffico di stupefacenti, l’organizzazione del gioco clandestino, lo sfruttamento della prostituzione. I terremoti, che ahimè costellano la storia del nostro Paese, sono certamente un veicolo di reinvestimento sicuro per le mafie e quindi lo è, potenzialmente, anche quello che ha colpito l’Emilia”. Esiste, e concreto, il rischio che la malavita organizzata faccia da banca alternativa, mettendo a disposizione della disperazione denaro a tassi usurari, potrebbe dare luogo a situazioni di asservimento alla malavita organizzata e di inquinamento del tessuto economico-produttivo. Rendiamoci conto che il mercato del credito parallelo è nelle mani dei clan e purtroppo, in una situazione come questa, è più facile che il denaro venga ottenuto da questo canale che da canali ufficiali. E nel campo degli appalti per la ricostruzione le mafie, in tutta Italia, possono ormai contare su professionalità di alto livello (notai, commercialisti, ingegneri, progettisti, eccetera), che mettono a disposizione dei clan competenze e cognizioni, con uomini di paglia e società di paglia e con una rete fitta di connivenze.
L’Emilia Romagna è stata un mito per intere generazioni . Tra i suoi molti meriti c’è anche la fondazione dell’Istituto dei Beni culturali (Ibc). Che per la prima volta dimostrò con una azione pratica la dimensione culturale del territorio e l’importanza del patrimonio artistico minore, mediante un immane censimento del patrimonio storico artistico nei centri minori, concretizzando l’idea larga del bene culturale incardinato nel territorio, del suo legame profondo con la geografia civile che lo ha prodotto.
Ora, dopo l’Aquila, anche l’Emilia sarà costretta se non ci uniamo in sua difesa, rompendo il silenzio, alla condanna all’oblio della sua storia, della sua tradizione insieme a quella del lavoro, della prosperità, dell’accoglienza. Il debolissimo documento dell’OCSE preso come una bibbia da questo governo che odia la bellezza, la cultura, la dignità e i diritti, accredita la positiva “innovazione” di un intervento per l’edilizia storica che si imita a conservare le facciate demolendo il resto, che considera meritevoli di una qualche tutela solo i “monumenti” demolendo “l’edilizia minore”, che promuove la sostituzione del paziente lavoro dell’urbanistica, della storia e del restauro con l’intervento “creativo” degli architetti, magari mobilitati da concorsi internazionali ispirati da quella infame combinazione di provincialismo, familismo e clientelismo.
Si è detto che l’Emilia non è L’Aquila. A l’Aquila il disastro è stato probabilmente l’acceleratore di un declino irreversibile, che in Emilia, all’opposto, c’è un grande dinamica sociale, economica e produttiva, c’è un tessuto civile che è il migliore d’Italia e che gli stessi lutti dei primi giorni dopo il sisma sono stati provocati dalla straordinaria spinta a ricominciare.
C’è da temere che oggi non sia già più così, c’è da temere che la politica del governo mossa dal crudele motore del ricatto, proprio come a Taranto imponga scelte disumane, rapaci e incivili: quella tra il lavoro e la sicurezza, quella tra le certezze e la precarietà, quella tra la propria terra e l’andarsene, quella tra la libera iniziativa di piccoli imprenditori e artigiani e il rifugio miserabile dello stare sotto padrone, quella tra la scuola comunale alla quale non arrivano i fondi del piano città e qualche istituto privato solido e iniquo. Non so se come è successo all’Aquila anche qui si stia consolidando un sistema che prevede l’augurabile abbandono delle piccole città dei piccoli paesi, della case per promuovere non una Disneyland come all’Aquila ma un set della mediocre modernità, con al centro quei bei centri commerciali al posto del palazzo del comune, una bella stazione di servizio, in sostituzione dei giardinetti, come monumento alle liberalizzazioni. So che dobbiamo stringerci intorno a un territorio che è stato volontariamente e malignamente abbandonato, nell’incuria, nel silenzio, nel dolore per farne una geografia della precarietà, della provvisorietà del lavoro, dei valori, della civiltà, dell’immemore perdita di democrazia.
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