L'epopea di gilgamesh: parte 2
Creato il 19 febbraio 2013 da Giuseppeg
Gilgamesh, l’abbiamo visto, non è certo quello che potremmo definire ‘un eroe positivo’. La sua forza non viene incanalata verso scopi ‘costruttivi’ e di pubblica utilità, anzi è vero il contrario: ne sanno qualcosa le spose rapite. Ciò che veramente gli interessa è la propria personale affermazione, spesso a discapito di chi gli sta intorno. Gilgamesh, mezzo uomo e mezzo dio, sperimenta in se stesso ogni aspetto della vita terrena, realizzandola pienamente in tutto il suo potenziale: la sua condizione diviene allora emblematica ed esemplare, l’ideale quindi per un discorso generale sulla vita e sulla morte. Ma torniamo ora al nostro racconto. Una volta divenuti amici, Gilgamesh ed Enkidu ne combinarono di cotte e di crude, divertendosi alle spalle dei comuni mortali e realizzando al tempo stesso delle imprese straordinarie. Ce n’era una, in particolare, che li attirava da matti. Si trattava della Foresta dei Cedri, un luogo sacro appartenente a Šamaš, il grande dio del sole. Questo luogo era sorvegliato dal terribile Humbaba, una bestia mitologica dal potere immane, la cui forza si abbatteva su chiunque osasse entrare. Ma perché i due compagni volevano cimentarsi un un’impresa tanto pericolosa? È presto detto: per la gloria. “Chi è l’uomo che può scalare il cielo? Soltanto gli dei vivono per sempre con Šamaš glorioso; invece noi uomini abbiamo i giorni contati, le nostre faccende sono un soffio di vento […]. Così, se cado, lascerò ai posteri un nome duraturo. Di me gli uomini diranno: ‘Gilgamesh è caduto nella lotta con Humbaba feroce’. Per molto tempo dopo la nascita del figlio nella mia casa lo diranno e si ricorderanno”. L’immortalità, dunque, questa prosecuzione della vita che persiste ancora dopo la nostra morte e che può essere ottenuta solamente con la fama e col ricordo delle genti che verranno. I due allora si avviarono verso il bosco di cedri, armati soltanto del loro coraggio. Ora, il fatto che il cedro fosse ritenuto un albero sacro non dovrebbe stupirci, dal momento che l’antica Mesopotamia, così fertile quando la terra veniva curata, difettava però di legname, tant’è vero che questo veniva importato soprattutto dal vicino Libano, regione ricca di cedri pregiati. Arrivati nel bosco, i due compagni per prima cosa si misero ad abbattere proprio il cedro più antico, così da suscitare l’immancabile reazione dell’inospitale Humbaba. “Quando Humbaba udì il rumore da lontano ne fu infuriato; gridò: ‘Chi è costui che ha violato i miei boschi e tagliato il mio cedro?”. Ora, se Humbaba metteva paura anche già solo a pensarlo, figuriamoci vederselo arrivare tutto livido di rabbia, coi denti sporgenti e gli artigli affilati! Come prima conseguenza si ebbe che il nostro prode Gilgamesh finì a terra senza sensi, vittima forse di un potente incantesimo. Il povero Enkidu ci provava in tutti i modi a rianimarlo, ma con scarso successo. Finalmente il suo compagno si riprese, e di lì a poco tempo si riebbe del tutto - e Humbaba, che faceva nel frattempo? Misteri dell’epica antica… Enkidu, nonostante il compagno avesse ripreso le forze, rimaneva un tantino impaurito dalla presenza del custode micidiale. Ma Gilgamesh lo redarguì con queste parole: “Tutti gli esseri viventi nati da carne siederanno alla fine sulla barca dell’Ovest; e quando questa affonderà, quando la barca di Magilum affonderà, essi saranno scomparsi; noi però andremo avanti e poseremo gli occhi su questo mostro. Se il tuo cuore ha paura, getta via il terrore. Prendi in mano la scure e attacca. Chi lascia incompiuta la lotta non ha pace”. Purtroppo per loro, però, il coraggio e la scure non bastarono ad avere ragione del mostro. Ci voleva un intervento divino, e così Gilgamesh non esitò a rivolgersi al solito Šamaš, che indulgente come sempre gli offrì addirittura l’aiuto dei venti, in tutto due per ogni punto cardinale. Forte di queste armi soprannaturali, Gilgamesh ebbe infine ragione del mostro, il quale a un certo punto gli gridò: “Gilgamesh, fammi parlare. Io non ho mai conosciuto una madre, no, nemmeno un padre che mi allevasse. Nacqui dal monte, fu lui ad allevarmi, ed Enlil mi fece custode di questa foresta. Lasciami andare libero, Gilgamesh, e io sarò il tuo servo, tu sarai il mio signore; tutti gli alberi della foresta saranno i tuoi. Io li abbatterò e ti costruirò un palazzo”. C’era proprio di che mettersi d’accordo, e per dovere di cronaca bisogna dire che Gilgamesh era lì lì per accettare. Fatto sta che a un certo punto intervenne il buon Enkidu, che si espresse pressappoco in questo modo: “Se l’uccello intrappolato ritornerà al nido, se l’uomo prigioniero farà ritorno fra le braccia di sua madre, allora tu, amico mio, non farai mai ritorno ala città dove ti attende la madre che ti ha fatto nascere. Costui ti sbarrerà la via alla montagna e renderà i sentieri inaccessibili”. Humbaba tentò a modo suo di replicare, ma non ci fu niente da fare: “Non ascoltare, Gilgamesh! Questo Humbaba deve morire. Uccidi prima Humbaba e poi i suoi servi”. Detto fatto: “Gilgamesh prestò ascolto alla parola del compagno, prese la scure in mano, estrasse la spada dalla cintura e sferrò a Humbaba un colpo di spada nel collo; Enkidu suo compagno sferrò il secondo colpo. Al terzo colpo Humbaba cadde. Allora vi fu un subbuglio, perché quello che avevano abbattuto era il custode della foresta”. Era proprio così: la terra si mise a tremare, il cielo divenne di piombo. Persino gli dei si infuriarono - come se non fossero già stati avvertiti! Nonostante tutto questo finimondo, i due compagni riuscirono a svignarsela e a tornare sani e salvi alla loro città. Tuttavia, un limite invalicabile era stato superato, e la maledizione non poteva tardare. A parte questo, inoltre, ci fu un altro episodio che condusse i due compagni alla disfatta: si trattava di una donna, di una dea per l’esattezza, rifiutata bellamente da Gilgamesh. Ma di questo parleremo la prossima volta.
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