L'era del social network

Creato il 14 aprile 2011 da Alesan
E' strano come dopo la puntata di Report di domenica scorsa sui social network e l'insicurezza del web, sia stata una girandola di articoli da prima pagina su Facebook e i suoi cugini. Anche il TG1 ha sentito il bisogno di dire la propria, martedì, con uno dei suoi magnifici reportage dove il cittadino qualunque sostiene, intervistato mentre va al lavoro, l'argomento che più ritiene opportuno a difesa o contro gli spazi del Web 2.0. Tra quotidiani e riviste varie, dagli insulti di Vasco Rossi a Ligabue, sino a messaggi in bottiglia ritrovati vent'anni dopo e condivisi sul web per ritrovare chi li aveva lasciati, l'importanza rilevata questa settimana dall'informazione per la discussione su privacy, utilità, dipendenza e quant'altro è stata più alta della media. Decisamente. Il primo assaggio della diatriba però parte proprio da Report che, dal proprio sito, fa sapere di non condividere le posizioni di quei telespettatori che contestano la vaghezza della puntata ed il tentativo di far passare quella che tutto sommato appare come una condanna prestabilita dal reportage spiegando, come spesso capita dalla Gabbanelli, solo il lato oscuro della forza e spesso in modo del tutto sommario. Due ore di puntata sono effettivamente poche per spiegare il fenomeno Facebook, Twitter o Foursquare, quello però che sfugge è il tentativo estremo di scandalizzarsi (e scandalizzare) sulla questione privacy. Perché qui non è questione di condannare, visto che nel campo dell'elettronica, dall'utilizzo del telefonino o dei pos per i pagamenti con carte di credito, parlare di privacy per come la intendiamo noi è piuttosto difficile.
 Da anni ormai le agenzie di ricerca di mercato si fanno pagare profumatamente dalle aziende per tracciare le carte di credito e scoprire così quali prodotti vengano acquistati, da quali fasce di età, a quanto ammontino le spese medie o quelle annue... è un modo per fare marketing, sapere cioè come colpire le persone, cosa far trovar loro nel negozio della catena X in questa o quella città, in questa o quella piazza. Se è vero, com'è vero, che le carte vengono tracciate senza poi rivelare l'identità del loro possessore, un po' come fa Google, che assegna ad ogni PC che utilizzi il suo motore di ricerca una sorta di codice per valutare ciò che noi amiamo di più guardare sul web, è vero anche che ad un numero di carta (o a un codice web relativo ad un computer) corrisponde un essere umano che viene spiato costantemente. Per conoscere i suoi gusti, le sue tasche, i suoi piaceri.
Cosa fanno i social network di così diverso e di così terribile salvo poi esaltarli quando guidano le rivolte in Nord Africa o fanno girare le notizie alla velocità della luce rendendo l'informazione aperta, globale ed immediata? Di fatto nulla, se non impossessarsi di quanto noi siamo disposti a cedere. Foto, parole, canzoni... dati anagrafici. Cambia qualcosa iscriversi ad un sito di acquisti on-line rilasciando le stesse informazioni ed anche il numero di carta di credito? Non del tutto, con la differenza che un social network lo posso ingannare, registrarmi a nome falso, non inserire foto o filmati. Sono io che decido per me stesso e, alla fine, devo prendere atto che le società multimilionarie che navigano dietro a questi simpatici loghi del web sono, né più né meno, le nuove major del mondo finanziario. Regalano contenuti web in cambio di pubblicità, dati, intromissioni nella nostra vita che noi, e soltanto noi, decidiamo se, come e quando concedere.
E' sbagliato? Facebook si comporta male? Può essere, ma non è molto diverso dal discorso che si fa acquistando un paio di Nike cucite da un bambino sfruttato in qualche angolo del mondo e pubblicizzate da un atleta professionista e famosissimo trasformato in marchio pubblicitario. L'idea di fondo della puntata di Report, poi, punta al fatto che l'idea dietro i social network non sia quella di vendere un prodotto ma di trasformare un utente nello stesso. E' vero, niente da dire. Il web ci circonda di questa roba, anche fuori dalla sue estensione partecipativa del 2.0, ma anche qua non vedo molte differenze nella moda dell'abbigliamento, dove un capo firmato, grazie a loghi e patacconi, è anche un ottimo veicolo pubblicitario che noi, ogni qual volta lo indossiamo, ci portiamo appresso uniformandoci ad una società che segue standard predefiniti che noi siamo convinti di creare ed invece subiamo. Come la moda, appunto, che nasce nell'abbigliamento e arriva ai telefonini, alle auto, agli auricolari del vostro lettore mp3.
Di fatto il web, in queste sue variabili, non è altro che l'evoluzione della moda, dell'apparire, del "fare parte di" e giocare sul fatto che i proprietari di Facebook, Google o Twitter non siano propriamente dei santi ha lo stesso peso del giudizio che si può dare ai proprietari di Windows, Adidas o Ikea. E' tutto parte della globalizzazione, con la differenza che il business che la grandi case del web possono sfruttare riescono a proporlo gratuitamente attraverso prodotti che, indubbiamente, hanno la loro utilità. Google in primis offre una vasta gamma di prodotti funzionali e gratuiti: blog, mail, motore di ricerca, You Tube... Facebook risponde cercando di creare un mondo a sé, che non ti spinga più ad usare altri prodotti. Ti dà la chat, la possibilità di scrivere post nella tua pagina personale proprio come se gestissi un blog, guardare foto e filmati, giocare.
Il social network, più che una rete di amicizie, sta diventando un gioco di società, una condivisione costante dei punti di ritrovo, delle immagini, dei momenti, dei commenti, delle idee in movimento. Momenti di serietà, di svago, di cazzeggio puro, con pessimi neologismi che seguono l'evolversi delle mode, dalla foto scattata e riportata su Instagram al ristorante preferito checkato su Foursquare, dall'amico taggato su Facebook a quello followato su Twitter. La gravità di questo sistema è il rimbecillimento generale, la dipendenza da computer, la distruzione delle relazioni umane e della lingua italiana. I veri pericoli sono quelli, quanto a Facebook, in quanto logo, in quanto moda, potrebbe presto fare la fine di MySpace e sparire dal dizionario quotidiano dei teenagers (e dei matusa) per lasciar posto alla prossima azienda che ci vuole come prodotti.
Nessun monumento agli ideatori di queste cose, alle loro corse in borsa, ai loro milioni fatti alle nostre spalle, alle loro violazioni. Ma penso che, seppur regolate in modo più genuino, queste forme di espressione, condivisione, comunicazione e informazione rapida siano indispensabili e un'ottima evoluzione del web in attesa della prossima rivoluzione informatica. Del resto anche le Nike sono una grande invenzione anche se resta censurabile il loro approccio, le aziende-galera nel Sudest asiatico, l'uniformità del prodotto e dei suoi negozi, tutti dallo stesso sapore come un hamburger di McDonald's. Se poi uno nella vita non ha altro da fare che stare di fronte a Facebook allora il problema è lui. Se uno vive per cliccare "mi piace" prima di ogni suo amico il problema è sempre lui. Non la rete sociale.

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