Ed è probabilmente per questo che, qualche tempo fa, rimasi un po’ deluso dal fatto che la notizia della morte di Fidel Castro, fosse falsa. Non per l’evento in sé, quanto piuttosto per la grande occasione persa dalla rete, e da Twitter in particolare, di scavalcare per la prima volta, per una notizia tanto importante, i media tradizionali, e demarcare in tal modo un prima e un dopo nell’era delle informazioni social.
Ho tanto a cuore le sorti di Twitter, così sobrio rispetto a Facebook, che pongo a me stesso e agli altri moltissime domande sul suo utilizzo e sul suo impatto nella vita di tutti noi.
Lo spunto più interessante me lo ha fornito un articolo di Bill Keller, ex (dal 6 settembre 2011) direttore del New York Times, che da utilizzatore convinto di social network, si è chiesto se con l’avvento di questi strumenti comunicativi sia stata messa in pericolo una parte delle capacità cognitive degli esseri umani.
Nella sua tesi, assolutamente robusta, la rivoluzione informazionale in cui ci stiamo calando è paragonabile a quella che si ebbe con Johann Gutenberg, “lo Zuckerberg del suo tempo”, che in poco tempo cancellò secoli di oralità, in cui imparare e recitare un testo a memoria era stata una prerogativa abbastanza comune.
Una sorta di Galassia Zurckerberg, giocando con l’intuizione di McLuhan, in grado di rimodulare il concetto di esperienza umana. In casi come questo, una parte della complessità umana, defilandosi per far spazio al supporto esterno, si libera e attiva altre funzionalità prima sopite, o almeno questo è ciò che si spera.
Ma è davvero così?
In effetti il rischio che un mezzo straordinariamente popolare come Facebook svilisca le nostre capacità di relazione esiste, così come cercare on line tutte le informazioni di questo mondo sta realmente affievolendo le nostre capacità di memoria. La chiave di tutto è nel come riusciremo ad utilizzare quelle capacità cognitive che si stanno liberando dalle catene dell’esigenza.
Volendo fare un esempio su cosa evitare, basta orientarsi sulla dimamica delle conversazioni che sosteniamo all’interno dei social network.
A ben vedere un dialogo su Facebook scivola spesso nella banalità e nella prevedibilità delle sue parti, e costituisce uno scarsissimo esercizio di relazione, peraltro già mal concepito, da cui sarebbe il caso di tenersi alla larga.
Il sospetto secondo Keller è che “le amicizie su Facebook, così come le chiacchiere su Twitter, stiano prendendo il posto delle conversazioni e dei rapporti reali, proprio come l’invenzione di Gutenberg ha soppiantato la memoria.
Le cose che disimpariamo un tweet dopo l’altro, vale a dire la complessità, l’acume, la pazienza, la saggezza, l’intimità, sono importanti”. Inoltre nelle discussioni reali le argomentazioni si susseguono in ordine crescente, con una complessità che aumenta, e a volte interviene persino un processo di persuasione che, per dirla tutta, è pressoché assente nel batti e ribatti telematico.
Tuttavia è con cauta certezza che sento di poter divergere da questa visione un po’ apocalittica, o quanto meno deprimente delle nuove frontiere del comunicare. Questo soprattutto se consideriamo le nostre azioni per quello che siamo, come sempre dovrebbe accadere.
E’ piuttosto scontato infatti che in una società basata su un’economia di mercato, in cui la spettacolarizzazione la fa da padrone, mezzi di comunicazione così attrattivi e diretti, riescano a porre al centro (immaginario) dell’attenzione l’individuo, e siano talvolta veicolo di enormi distrazioni di massa. Ma è altrettanto certo che proprio per questa grande popolarità, questi mezzi finiranno, col tempo e a tutte le latitudini, per aderire completamente con gli individui che li utilizzeranno, e quindi renderanno paradossale ogni discorso sull’affidabilità del medium, rimandando tutto alla singola esperienza umana, in carne ed ossa, proprio come accade quando ci fidiamo o meno di una persona.
Detto ciò, in buona sostanza Twitter, tanto più che Facebook, ha la possibilità di stravolgere il mondo dell’informazione se, e solo se, saremo in grado di coglierne la portata. L’invito è di non lasciarsi andare al fascino della contemplazione che coinvolge un po’ tutti noi quando assistiamo con stupore, per ore, allo scorrere interminabile di tweets. E questo per non cadere nel tranello di cui parlavamo prima, ossia nell’incapacità di adoperare le risorse rese libere dalla tecnologia per implementare l’esperienza vissuta del nostro quotidiano.
I presupposti ci sono tutti. Basta guardare un po’ indietro, per rendersi conto della grande capacità di adattazione che la nostra mente possiede, ogni qual volta una nuova tecnologia ne modifichi la funzionalità. Come sostiene Nick Bolton, blogger di tecnologia sul NYT, le ricerche dimostrano che il cervello si adatta a queste trasformazioni in meno di una settimana, a prescindere dall’intelligenza. Dunque la nostra mente è in grado di accettare perfettamente un supporto esterno di memoria, pur mantenendo, e anzi migliorando, la propria capacità di analisi.
In un romanzo di Meg Wolitzer, The uncoupling, la comunità dei liceali viene descritta come una “generazione che ha avuto informazioni, ma nessun contesto. Burro, ma niente pane, voglie ma nessun desiderio“.
Io non credo affatto sia così, e sono sicuro che l’essere umano saprà, all’occorrenza, creare nuovi contesti dove accrescersi.
E voi, cosa ne pensate?