Una Napoli pulita, produttiva e soprattutto "legale". Un sogno? Sicuramente. Un'utopia? Speriamo di no. Per ora, tuttavia, è il "finale" (lo possiamo svelare) di un film. Con "L'era legale" il napoletano trapiantato a Roma Enrico Caria prova a immaginare come potrebbe essere una delle città più controverse del mondo se fossero attuate politiche a dir poco rivoluzionarie. Per esempio? Legalizzare le droghe. Tutte. Così da sottrarre alla criminalità organizzata la fonte del suoi maggiori guadagni. Artefice dell'impresa un buffo sindaco dalle origini umili che riuscirà a farsi strada smascherando la "casta" e con l'aiuto di un generoso imprenditore.Il regista sceglie un genere particolare per raccontare le vicissitudini di Nicolino Amore (il primo cittadino interpretato da Patrizio Rispo), più che quelle della città. Il film infatti è un mockumentary, ovvero un finto documentario. Le gesta dell'eroico sindaco sono ovviamente tutte frutto di fantasia, ma il modo di raccontarle è sulla falsa riga di un documentario, con il vivace mix di realtà, fiction e interviste a diversi personaggi, da Marcelle Padovani (giornalista de "Le Nouvel Observateur") al Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, dagli scrittori Carlo Lucarelli e Giancarlo De Cataldo al politico Fabio Granata. L'idea è convincente e il film è condito con svariate gag che strappano più di un sorriso. Forse però la sceneggiatura non è perfettamente oliata e avanza a tratti in modo macchinoso.L'elemento che emerge è proprio la scelta del genere del "finto documentario" che in effetti conferisce un quid pluris al film e in un certo senso permette di descrivere e raccontare abbastanza bene la condizione e le aspirazioni di una città, sempre abbastanza sballottata tra realtà al limite della ragione, cronaca feroce e un'umanità splendida ma a volte troppo passiva. Andando oltre l'approccio documentaristico, Caria ha voluto avvolgere la realtà con una dimensione favolistica (la voce narrante ricorda a tratti quella de "Il meraviglio mondo di Amélie) e così offre un ulteriore modo per interpretarla e per confrontarsi con essa.
Una Napoli pulita, produttiva e soprattutto "legale". Un sogno? Sicuramente. Un'utopia? Speriamo di no. Per ora, tuttavia, è il "finale" (lo possiamo svelare) di un film. Con "L'era legale" il napoletano trapiantato a Roma Enrico Caria prova a immaginare come potrebbe essere una delle città più controverse del mondo se fossero attuate politiche a dir poco rivoluzionarie. Per esempio? Legalizzare le droghe. Tutte. Così da sottrarre alla criminalità organizzata la fonte del suoi maggiori guadagni. Artefice dell'impresa un buffo sindaco dalle origini umili che riuscirà a farsi strada smascherando la "casta" e con l'aiuto di un generoso imprenditore.Il regista sceglie un genere particolare per raccontare le vicissitudini di Nicolino Amore (il primo cittadino interpretato da Patrizio Rispo), più che quelle della città. Il film infatti è un mockumentary, ovvero un finto documentario. Le gesta dell'eroico sindaco sono ovviamente tutte frutto di fantasia, ma il modo di raccontarle è sulla falsa riga di un documentario, con il vivace mix di realtà, fiction e interviste a diversi personaggi, da Marcelle Padovani (giornalista de "Le Nouvel Observateur") al Procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, dagli scrittori Carlo Lucarelli e Giancarlo De Cataldo al politico Fabio Granata. L'idea è convincente e il film è condito con svariate gag che strappano più di un sorriso. Forse però la sceneggiatura non è perfettamente oliata e avanza a tratti in modo macchinoso.L'elemento che emerge è proprio la scelta del genere del "finto documentario" che in effetti conferisce un quid pluris al film e in un certo senso permette di descrivere e raccontare abbastanza bene la condizione e le aspirazioni di una città, sempre abbastanza sballottata tra realtà al limite della ragione, cronaca feroce e un'umanità splendida ma a volte troppo passiva. Andando oltre l'approccio documentaristico, Caria ha voluto avvolgere la realtà con una dimensione favolistica (la voce narrante ricorda a tratti quella de "Il meraviglio mondo di Amélie) e così offre un ulteriore modo per interpretarla e per confrontarsi con essa.
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