Nel romanzo precedente una frenesia sociale che percorreva gli abitanti del villaggio, aveva portato alla santificazione voce populi di Tashbash, colui che meno di tutti si lasciava assoggettare dalle logiche sfruttatrici del capo villaggio Sefer. Lì Y. Kemal ci mostrava come nelle società rurali un disagio materiale possa essere sublimato, e in qualche modo risolto, attraverso il ricorso al "magico" e al divino. Ma gli umori dei paesani cambiano più veloci delle stagioni. E in questo L'erba che non muore mai Tashbash sarà sacrificato come capro espiatorio dalle stesse logiche "magiche" che lo avevano santificato. Kemal con estrema abilità ci conduce in quel ganglio umano e sociale insondabile, dal quale nascono i miti, le divinità, laddove l'immaginazione si fa iperbole della realtà e dà risposte a quest'ultima seguendo tracciati quantomeno irrealistici. Un complesso gioco di parole? Non tanto. Qualcuno sarebbe pronto a sintetizzare pronunciando le parole 'ignoranza' o 'superstizione'. Altri parlerebbero di una sovrastruttura culturale che risponde a condizioni di vita misere ed estreme. Yashar Kemal, con molta più umanità, ci scrive sopra tre romanzi e nascondendosi dietro alla sua voce epica, ci porta dentro questa intricata poiesi. Non c'è solo la storia di Tashbash. C'è anche quella di Alì il lungo che è costretto a lasciare la sua anziana madre al villaggio; quella di Memidik, che volendo uccidere il capo vilaggio, una notte, sbaglia uomo e per tutto il romanzo è ossessionato dalle aquile che volteggiano sopra il pozzo in cui ha nascosto il cadavere. Molti altri i personaggi, molte altre storie si snocciolano lungo i mesi della raccolta del cotone, e darne conto in sede di recensione avrebbe poco senso. Il libro è lì, per chiunque voglia conoscerle.
[...]
(Il resto su Lankelot, con molte foto; qui e qui, invece, le recensioni dei due altri romanzi della trilogia)