Il problema però è che noi siamo diversi, non uguali. Ciascuno di noi è unico: e il tentativo di farci diventare uguali, per quanto nobili ne siano state quasi sempre le premesse e gli intendimenti, non è che il tentativo, sempre ripetuto, di portare a norma ciò che per definizione è anormale perché unico: me stesso. Mele e pere non si possono addizionare; i numeri invece sì.
A partire dalla prima guerra mondiale, allo scopo di trasformare progressivamente le mele e le pere in numeri, dosi massicce di uguaglianza sono state via via iniettate nelle società europee, e dopo la seconda guerra mondiale il mondo si è diviso in due metà tanto contrapposte fra loro, quanto paradossalmente accomunate da una medesima “religione dell’uguaglianza”: l’Occidente si è (ri)unificato sotto la guida degli Stati Uniti, che due secoli prima avevano, se non inventato, di certo praticato con entusiasmo e con successo l’«uguaglianza delle condizioni» (l’espressione è di Tocqueville); e «uguaglianza» è stata anche la beffarda parola d’ordine con cui il comunismo reale ha ridotto in schiavitù un terzo dell’umanità.
L’uguaglianza è la società degli uguali – o di coloro che sono percepiti, rappresentati, immaginati come uguali –, ma il modo in cui questa società funziona e viene governata resta impregiudicato. Il Terzo Reich era una società di eguali, come del resto la Cina della rivoluzione culturale: in generale, il totalitarismo è un’incarnazione storica precisa, duratura ed efficace dell’uguaglianza come condizione e come stato di fatto.
Altrove – in Occidente, cioè là dove Europa e America si sono infine ritrovate – l’uguaglianza ha preso la forma del mercato e della democrazia politica: consumatori ed elettori sono, per definizione, tutti uguali. È una differenza fondamentale, alla quale dobbiamo la nostra stessa vita, ma non per questo sufficiente ad eliminare quei pericoli e quei rischi che effettivamente segnano oggi i limiti interni del mondo democratico: il dispotismo dell’opinione pubblica, l’arroganza delle maggioranze, l’emarginazione silenziosa di ogni minoranza e, in genere, di chiunque pensi o viva o parli in un “altro” modo.
Su questo tema assai delicato – perché siamo propensi quasi per istinto a considerare la democrazia politica il sistema politico perfetto – sono già intervenuti a metà Ottocento Tocqueville con la Democrazia in America e John Stuart Mill in molti luoghi e occasioni, e non ci sarebbe dunque nulla da aggiungere se non, appunto, che il problema lucidamente individuato centocinquant’anni fa non è ancora risolto. Anzi.
L’uguaglianza e la democrazia possono portare a forme più o meno sottili, ma non per questo marginali o secondarie, di dispotismo e di prevaricazione – cioè di limitazione della libertà. Il punto è che l’uguaglianza senza libertà non serve a nulla, e la democrazia politica senza uomini liberi diventa regime. Oggi siamo precisamente in questa condizione: la nostra libertà è diminuita mentre la nostra uguaglianza è cresciuta.
In tutto l’Occidente, e nonostante la crisi, la qualità della vita tende a migliorare e le differenze tendono a ridursi; consumiamo gli stessi cibi e gli stessi programmi televisivi, e siamo tutti, potenzialmente, partecipi di uno stesso immenso mercato. La globalizzazione in tutte le sue forme – negative e positive, contestate e apprezzate – non è che la forma contemporanea dell’uguaglianza, la sua infrastruttura mercantile, finanziaria e culturale.
E la libertà? Che ne è del singolo nel mondo degli uguali?
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ISBN: 978-88-6222-129-0