Cagliari e i suoi dintorni sono il teatro di un dramma che opprime la vita di due ragazzini, Raniero e Gabriele, e delle loro famiglie. Raniero è malato nel corpo e nello spirito. Sua madre Gilla è ricoverata in una casa famiglia, resa irriconoscibile e semi incosciente da un trauma sentimentale che le ha segnato l’esistenza. Non è in grado di allevare Raniero che viene affidato alla zia Rosaria, anche lei vittima della vita che fin da piccola le ha fatto conoscere solo mortificazioni e che da grande l’ha consegnata al suo destino di donna sola e depressa. Lei, come Raniero, fa i conti con il suo corpo che le ripugna a tal punto da dissacrarlo offrendosi al primo che incontra per strada, un barbone o un poco di buono. Nel suo cuore coltiva la smania di piacere a Gabriele, l’unico amico del nipote, bello e brillante agli occhi di Rosaria e Raniero, in realtà fragile e arrabbiato: odia suo padre che è violento con lui e goffamente cerca di riprendere un dialogo impossibile: «Gabriele era ancora piccolo e prima che quella maledetta scatola cranica gli si chiudesse del tutto, poteva ancora salvarsi. Non diventare come lui, depresso e irascibile, dipendente da una pastiglia che se si dimenticava di prendere un giorno soltanto il suo umore andava a puttane e doveva ricominciare la cura tutta da capo. Però serviva la collaborazione di tutti, e Gabriele non doveva far uso di droga, altrimenti la psichiatra non l’avrebbe più potuto aiutare». Anche per sua madre Gabriele nutre una disistima e un rancore che non perdonano e non ne tollera la condiscendenza e la subordinazione nei confronti del marito.
L’amicizia fra Gabriele e Raniero sembra voler trascendere il mondo delle apparenze. Gabriele è pronto a difendere il suo amico dalla cattiveria e dal pregiudizio che lo investono ogni volta che prova a uscire dal guscio e a confrontarsi con la vita. Per Raniero Gabriele è una sponda, l’unica scintilla di piacere che gli fa sopportare la sua giovinezza ingrata.
Passioni dolorose incespicano in tutto il romanzo, non trovano uno sfogo né un interlocutore. La lotta dei personaggi contro la solitudine si risolve sempre in un non detto che trapela dietro frasi smozzicate, chiusure improvvise o atteggiamenti ambigui. L’espressione dei sentimenti è sempre fugace, per poi ripiegare in orgogliose prese d’atto o in tacite e pretenziose accuse, cosicché la natura più intima dei personaggi si radica nell’incomprensione a mano a mano che gli eventi tessono la propria rete soffocante e definitiva. Si porta il fardello del corpo come condannati alla vita, concludendo tragicamente che niente può restituire ciò che i colpi di un destino accanito hanno distrutto da sempre e per sempre.
È una prospettiva che inquieta e intriga quando non eccede nell’esasperazione dei toni e nella commiserazione, seppur velata, di personaggi votati alla sconfitta o reduci da esistenze fallate. La lingua è rispettosa dei caratteri e delle atmosfere, è naturale e mimetica benché a volte ricada in qualche ridondanza o anacronismo.
Notizie sull’autore
Marco Porru è nato a Cagliari nel 1979. Ha studiato lingue e letterature straniere e si è sempre interessato di teatro e di cinema. Ha seguito stage in Italia e all’estero, in Germania con Pina Bausch. Ha scritto la sceneggiatura di I bambini della sua vita diretto da Peter Marcias, per cui Piera Degli Esposti ha vinto il Globo d’Oro 2011 ed è stata premiata al XII Festival del cinema europeo. Il suo romanzo d’esordio L’eredità dei corpi è stato finalista al Premio Italo Calvino 2011.
Per approfondire:
leggi l’intervista di Maria Paola Masala su L’unione Sarda
leggi la recensione di Silvana Mazzocchi su la Repubblica.it
leggi la recensione di Carlotta Vissani su D – la Repubblica delle donne
Marco Porru, L’eredità dei corpi
Nutrimenti, 2012
pp. 303, euro 18