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L’eredità di un Presidente. Gli Stati Uniti e le sfide del post-Obama

Creato il 21 gennaio 2016 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Gianluca Pastori

L’ultimo discorso sullo stato dell’Unione di Barack Obama – pronunciato il 12 gennaio di fronte alle Camere riunite del Congresso – ha rappresentato un’occasione interessante per cercare di tracciare un bilancio degli otto anni della sua presidenza in materia di politica estera e internazionale e per valutare quali sfide attendono il suo successore, che verrà eletto nelle consultazioni del prossimo 8 novembre, quando verranno rinnovati anche i delegati alla Camera dei Rappresentanti e un terzo di quelli del Senato.

Come più volte osservato, negli anni del secondo mandato, l’immagine del Presidente che nel 2009, in occasione della sua prima elezione, aveva sollevato tante aspettative negli USA e fuori, è apparsa alquanto sbiadita. Quella che è stata da più parti percepita come l’incertezza della Casa Bianca davanti alle differenti crisi che è stata chiamata fronteggiare – dalla Libia all’Ucraina, passando per la Siria e l’impegno contro lo Stato Islamico/DAESH in Iraq – ha influito in maniera negativa sulla percezione degli Stati Uniti nel mondo e ha contribuito fare apparire la loro azione scoordinata e priva di un’effettiva strategia. Un “pivot to Asia” in buona parte rimasto sulla carta (tanto da essere stato sostituito, negli ultimi tempi, dall’idea di un “rebalancing to Asia”) si è così accompagnato a un pesante disimpegno dal teatro europeo, mentre in Medio Oriente la scelta di rilanciare i rapporti con l’Iran ha rimesso in discussione assetti e alleanze ritenuti consolidati, concorrendo così ad aggravare una situazione regionale già abbastanza complessa.

Da questo punto di vista, l’amministrazione uscente lascia in eredità al futuro Presidente una lunga lista di questioni aperte, in primo luogo proprio quella dell’implementazione del Nuclear Deal con l’Iran, e ufficialmente firmato lo scorso 16 gennaio. Per il valore simbolico e le implicazioni potenziali, questo accordo rappresenta forse il punto più alto che l’amministrazione Obama ha toccato nel campo della politica estera. Esso rappresenta, inoltre, un possibile cambio di paradigma per la politica statunitense nel Golfo, che dopo oltre trentacinque anni di ostilità sembra intenzionata richiamare Teheran sulla scena come possibile attore stabilizzante anziché come nemico comune contro cui coalizzare un “blocco sunnita” che appare, oggi, assai meno compatto che nel passato. L’aumento della tensione registrato negli ultimi giorni fra Iran e Arabia Saudita, al di là delle ragioni contingenti, è un segnale significativo di quanto la possibilità di questo cambio di paradigma sia considerata concreta dai diversi attori coinvolti e delle resistenze che essa incontra non solo da parte di Riyadh. L’iter di ratifica del Nuclear Deal da parte Congresso appare, infatti, accidentato e il modo in cui l’amministrazione uscente gestirà il dossier rappresenterà un’importante eredità per il futuro Presidente. Alla stessa maniera, dalla capacità di capitalizzare l’alleggerimento delle sanzioni internazionali dopo un “Implementation Day”, dipendono in buon misura le chance di successo di Hassan Rouhani e della sua politica pragmatica nel doppio turno elettorale del 2016 (le attese parlamentari di febbraio) e del 2017 (le presidenziali nel giugno 2017).

È intorno a questo perno che ruotano tutte le altre priorità. La rielezione di Rouhani (e la conferma della sua linea politica) sono la condizione necessaria perché l’engagement dell’Iran possa consolidarsi. Ciò, a sua volta, offre a Washington un alleato prezioso per la stabilizzazione di un’ampia regione, estesa dalle sponde orientali del Mediterraneo ai confini del Subcontinente indiano. Ciò, soprattutto, offre a Washington la possibilità di allentare i legami con due alleati tradizionali come Israele e l’Arabia Saudita, verso cui l’attuale amministrazione non ha mancato di manifestare, in diverse occasioni, una certa freddezza. Si tratta di un allontanamento importante dalla linea delineata con gli accordi del Grande Lago Amaro (1945) e rafforzata dalle scelta compiute all’epoca delle guerre dei Sei giorni (1967) e dello Yom Kippur (1973). Da questo punto di vista, le scelte non prive di spregiudicatezza di Barack Obama sono quelle di un’amministrazione che, per la prima volta dalla fine della Guerra Fredda, pare avere deciso di basare la sua azione su una visione esplicitamente post-ideologica della realtà internazionale e sull’abbandono del modello alleanza/contrapposizione permanente che dagli anni del confronto bipolare era “travasato” nei due decenni successivi. Questo cambio di prospettiva tocca da vicino anche l’Europa, dove fin da subito pare essere stata più forte la delusione per il mancato concretizzarsi delle “promesse” dell’amministrazione Obama, prima fra tutte quella della definizione di un (mai veramente identificato) “New Transatlantic Deal”.

Nonostante le aspettative da questa parte dell’Atlantico, negli anni dell’amministrazione democratica, infatti, l’Europa e la issue delle sue relazioni con gli USA sembrano essere scese parecchio nella lista delle priorità di Washington. La litigiosità dei Paesi europei e la crescente ri-nazionalizzazione delle loro politiche estere e di sicurezza hanno intaccato la capacità dell’Alleanza Atlantica di svolgere la sua tradizionale funzione di ‘camera di compensazione’ fra le esigenze e le priorità dei partner. Allo stesso tempo, l’emergere di quella che parte di essi percepisce come la crescente minaccia della Russia putiniana si è tradotto in una progressiva “ri-militarizzazione” del ruolo dell’Alleanza, che è andata a ulteriore discapito della sua funzione politica. Il problema (apparentemente irresolubile) del burden sharing, unito all’incapacità/non volontà dei partner europei – seppure con alcune eccezioni – di assegnare ai rispettivi bilanci della Difesa le risorse ripetutamente concordate (in forma impegnativa nel settembre 2014, durante il vertice NATO di Celtic Manor) ha concorso ad accrescere il divario di capacità esistente rispetto agli Stati Uniti la cui spesa per la Difesa è peraltro scesa, in termini relativi, dal 4,6% del PIL nel 2009 al 3,5% nel 2014. Proprio nella tensione che esiste fra l’aumento (seppure relativo) dei mezzi di potenza e l’indebolimento del ruolo-guida che gli Stati Uniti hanno da sempre esercitato sulla scena internazionale si trova una delle chiavi di lettura delle critiche che, in questi anni, hanno maggiormente colpito l’amministrazione Obama.

Quella in atto appare, comunque, una tendenza difficilmente reversibile. Difficilmente, infatti, il nuovo Presidente (chiunque esso sia) riuscirà a rivitalizzare una relazione che, per Washington, ha perso da tempo la centralità che aveva avuto in passato. Il “disagio” che aveva caratterizzato i rapporti fra le due sponde dell’Atlantico negli anni di George W. Bush e le critiche all’“unilateralismo” dell’azione dell’amministrazione repubblicana erano già espressione di questo fenomeno. Un fenomeno che – forse paradossalmente – pare avvicinare gli Stati Uniti all’attuale Russia “neo-imperiale” più di quanto li avvicini ai partner europei. Mosca e Washington, oggi, hanno più interessi in comune tra loro di quanti non ne abbiano con i rispettivi partner e alleati. In un certo senso, si tratta di una situazione non dissimile da quella degli anni della Guerra Fredda, quando la necessità di mantenere l’equilibrio globale avvicinava la due Superpotenze fra loro più di quanto la rivalità ideologica non le avvicinasse ai membri dei rispettivi blocchi. Anche su questo punto la sfida che si pone al successore di Barack Obama appare delicata. Non a caso, lo stesso Obama aveva avviato il suo primo mandato richiamando la necessità di un restart dei rapporti con la Russia, incrinati dalla crisi georgiana dal 2008. La crisi in Ucraina da un lato, l’accresciuta presenza di Mosca sul teatro mediorientale dall’altro costituiscono due ipoteche importanti per qualunque futuro negoziato. D’altra parte – come gli ultimi anni hanno ampiamente dimostrato – la trasversalità degli interessi concreti rappresenta un collante assai più forte delle divergenze manifestate pubblicamente.

* Gianluca Pastori, membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio di Politica Internazionale (OPI) – BloGlobal, è Docente di Storia delle Relazioni politiche tra il Nord America e l’Europa (Università Cattolica Sacro Cuore, Milano). Docente nel modulo di Storia delle relazioni internazionali nel Master in Diplomacy dell’ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale. Socio fondatore di SeSaMO – Società per gli Studi sul Medio Oriente.

Photo credits: Evan Vucci – Pool/Getty Images

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