L’ESPERIENZA DELLA MERAVIGLIA – di Bizzarro Bazar

Creato il 12 settembre 2014 da Wsf

Il mondo perirà per carenza non di meraviglie, ma di meraviglia.
(John B. S. Haldane)

Il bambino guarda le stelle, di notte, e la sua angoscia di fronte all’enormità del mondo (prima esperienza del sublime) si accompagna di uno sconcerto, se non di vera e propria rabbia, nei confronti degli adulti: le stesse persone che gli hanno insegnato che quei puntini luminosi sono pianeti, stelle, galassie incommensurabilmente distanti fra loro, conducono la propria vita come se la cosa non li turbasse affatto. Come possono dormire la notte? Come possono incaponirsi su cosa sia appropriato indossare la domenica a messa, quando è chiaro agli occhi del bambino che viviamo in un immenso paradosso? In un cosmo che, razionalmente, non dovrebbe esistere?

Usi la parola “fantastico” per descrivere un maledetto sadwich da Wendy’s. Cosa succederà il giorno del tuo matrimonio, o quando nascerà il tuo primo figlio? Come lo descriverai? Hai già sprecato “fantastico” per un sandwich del cazzo.
(Louis C.K.)

Occorre fare chiarezza, oggi che l’iperbole ha invaso il linguaggio comune.
Gli aggettivi “prodigioso”, “mostruoso”, “portentoso”, “fenomenale” condividono un nucleo concettuale taumaturgico. Il loro etimo originario designava ciò che si presenta di fronte agli occhi quale pura e neutra manifestazione, salvo poi acquistare nel tempo un secondo valore semantico, ossia quello del segno. Il portento (da por, avanti e tendere, offrire) cominciò a non offrire più soltanto se stesso, ma a rimandare a qualcosa di eccezionale; il mostro, prodigio che sembrava sfuggire alle leggi di natura, non era altro che un avvertimento del Cielo (da monere, che condivide la radice con “mostrare”, appunto). Il “fenomeno” – da phaino, appaio, quindi relativo a tutta la gamma del sensibile – diventò sinonimo di qualcosa di “strabiliante” (cioè che fa cader dalla sedia, perdere l’equilibrio, stra-bilicante).
Tutto ciò che stava fuori dall’ordinario, venne immediatamente fatto segno.
Nella tradizione degli aruspici, si trattava di ammonimenti divini che andavano interpretati ogni qual volta si manifestasse un evento “contro” natura. Ma oggi, s’intende, noi uomini che ci fregiamo di modernità, come dovremmo rapportarci con questo tipo di concetti?

Essi ricadono nel più ampio bacino del meraviglioso. Cioè, tutto ciò che vale la pena d’essere guardato, ammirato e rimirato (mirabilia), e che suscita in noi un senso di stupore.

A cosa rimanda dunque il segno meraviglioso?
Rimanda proprio al sublime, all’ineffabile, al senso del mistero del cosmo che prova il bambino muto di fronte alla volta celeste; che lo si affronti in assenza o in compresenza di un’idea di Dio.
Tutto questo suggerisce come il sublime e la meraviglia possano essere visti come la vera e propria religione universale (da re-ligare), il legame che tiene assieme tutte le cose e tutti gli uomini senza punto conoscere epoca o latitudine, esperienza comune e fondante a prescindere da fedi, credenze, politiche culturali o sociali.
E per questo motivo occorre anche comprendere che la meraviglia è, e deve essere, come forse ogni religione, anche agghiacciante.

Questo è il maggiore punto di confusione: oggi si tende a pensare che degno di ammirazione sia soltanto ciò che mostra i caratteri della luce, della gioia, dell’ottimismo. Meravigliosi sono i bei tramonti, i giochi d’un cucciolo, le azioni improvvisate dei flash mob. Di per sé non ci sarebbe nulla di male, senonché negando al meraviglioso il suo originario dominio sulla tenebra si rischia di far proliferare la meraviglia di matrice hollywoodiana, quella che vorrebbe fare del mondo una grande Disneyland in cui la paura non può avere cittadinanza; e che, quand’anche affronti qualche zona perturbante, riesce a “sanitizzarla” e renderla innocua. Si pensi alla golosità dei talk show per i freak motivazionali, coloro che compiono grandi imprese nonostante il loro handicap, e che possono assurgere a protagonisti dei salotti televisivi soltanto nel momento in cui cercano di “superare” la propria diversità e conformarsi al modello sociale. Questa finta ammirazione avviene dall’alto in basso, attraverso un’assunzione di superiorità che la svuota di ogni sua funzione.
La meraviglia nera, invece, si ricollega all’angoscia di fronte al cosmo; piuttosto che rassicurarlo della sua posizione all’interno di una Norma, rende l’uomo minuscolo, ne svela l’inadeguatezza di fronte al mistero. E’ fondamentale comprendere che in questo tipo di confronto con l’angoscia, che la società tende a negare, sotterrare ed evitare, risiede il principale valore universale del meraviglioso, che è l’insegnamento di una stupefatta umiltà.

Tempo fa discutevo con il fotografo Jeffrey Silverthorne, autore di alcune celebri fotografie realizzate all’interno di morgue e obitori; in quei lavori l’intento era, a suo dire, quello di sottolineare la “normalità della morte”. Di fronte a quegli splendidi scatti, invece, io vedevo emergere non certo la Norma, bensì ancora una volta il meraviglioso, grazie alla capacità del fotografo di sottolineare dei precisi particolari in contesti altrimenti comuni e semplici; attraverso il suo sguardo amorevole, la normalità – che lui era intenzionato a trasmettere – veniva in verità trasfigurata. E certamente un cadavere non ha in sé nulla di peculiare, ma la sua rappresentazione (questo è una fotografia) si carica di evidenti connotazioni poetiche che rimandano alla finitezza della condizione umana; condizione inevitabilmente intessuta della tragica, devastante bellezza che è propria di qualsiasi impermanenza.
Forse, come sostiene Jeff, la morte è davvero “normale”. Personalmente, il terribile incanto che scaturisce dalla sua rappresentazione è ciò che non esito a definire meraviglioso.

Vi è però una confusione odierna fra il meraviglioso e il semplice “meravigliante”, fra l’oggetto che contiene la meraviglia, e quello che invece la suscita al di fuori di sé, in virtù di un’azione piuttosto che di una caratteristica intrinseca.
L’arpia è un essere colmo di meraviglia, in ragione delle proprie stravaganti qualità strutturali ed estetiche, e può esser detto meraviglioso poiché lo è. Uomo giocosamente meraviglioso è l’illusionista, che per il breve spazio della messinscena (ancora, una rappresentazione) si fa scrigno d’un enigma che non ci è dato di conoscere, e finge di sorpassare le leggi naturali; uomo “meravigliante” colui che si prenda a pugni da solo per la via, impresa che potrà forse suscitare stupore e lasciare attoniti gli astanti, ma non lo rende di per sé meraviglioso. Lo shock è figlio del capitalismo, della velocità e del tentativo di svettare sulla sterminata offerta; ma è sempre istantaneo, e il suo impatto si esaurisce in fretta.
Il meraviglioso è invece l’irruzione del fantastico nel quotidiano, la sua trasfigurazione e il suo mutarsi in segno; e, se è vera l’ipotesi che qualsiasi metafora è di per sé fantastica, tutta la poesia è meravigliosa. Il simbolismo, il misticismo lo sono.

Certi luoghi e certe ore uniscono, mettono a fronte o rafforzano le aureole (o zone di illuminazione) proprie delle diverse materie. Da questi urti, da queste combinazioni di aureole nasce ciò che comunemente di definisce col nome di atmosfera: un clima propizio alla trasfigurazione dei fenomeni sensibili. Andiamo nella foresta a cogliere il meriggio fremente delle radure; scopriamo la mezzanotte delle cave abbandonate, delle spiagge ritratte ove si ingioiano di luna le piccole alluvioni deposte dall’onda; esploriamo le stazioni, i sottopassaggi, i sotterranei delle grandi città, le case chiuse come marmellate di velluto in vasi di cristallo, le sale da gioco, i mercatini di cianfrusaglie, i teatri invecchiati; percorriamo le gole dei torrenti levigate e dure come cavalli impennati, le grotte, i ponti d’assi gettati sulle paludi; tante cose che, a meno di voler essere ciechi, bisogna guardarle fino a bruciarsi o a farsi scoppiare gli occhi, e tutti i sogghigni degli uomini dabbene, tutti i decreti dei loro preti o dei loro poliziotti non potranno più nulla contro l’innocenza feroce di un universo finalmente scatenato.
(André P. De Mandiargues)

Non priva di una valenza rivoluzionaria, in quanto esperienza intimamente personale che scardina la visione condivisa – imperativi, leggi ed obblighi sociali –, o perlomeno la riduce ad espediente pratico, la meraviglia è l’unica risposta sensata alla multiforme enigmaticità delle cose. Non dualistica, non esplicativa, lontana dall’idea di conquista, di definitiva conoscenza o di possesso, è uno stato alterato della coscienza inspiegabilmente sfuggito alle maglie della censura del sistema. Colui il quale avverte la meraviglia, ed è sensibile alla “trasfigurazione dei fenomeni sensibili”, è individuo pericolosamente libero, di fronte al quale la realtà risorge in tutta la sua crudele e impetuosa forza.

I computer sono inutili. Ti sanno dare solo risposte.
(Pablo Picasso)

E’ la vittoria del bambino sulla comunità degli adulti e sulle loro regole. L’unica vera universalità della religione sta nelle domande che essa si pone: lo stupore (ricorrendo un’ultima volta all’etimologia, l’ “assenza di risposte”, il restare instupiditi e “attoniti”, senza suoni) è la prima fase, e la più feconda, di questa investigazione. Ogni successiva risposta, ogni tentativo di soluzione dell’enigma del cosmo (sempre destinato ad essere relativo e limitato, se non fallimentare) nasce da qui. Il sublime sconcerto, il commosso ammutolire rimirando le stelle, sono la religione che accomuna tutti gli esseri umani.
Per questo il fuoco della curiosità, che è alimentato dall’esperienza della meraviglia, è una forma di sacerdozio.

Non so voi, ma io pratico una religione disorganizzata. Appartengo a un dis-Ordine non-Sacro. Ci chiamiamo “Nostra Signora della Perpetua Meraviglia”.
(Kurt Vonnegut)

Di Bizzarro Bazar


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