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L’estate delle crisi - A Matteo Renzi s'è ammosciato il pil

Creato il 01 luglio 2015 da Tafanus

Senza una strategia, senza un progetto, senza alleanze. Di fronte al caos greco, all'ondata di migranti, alla lenta crescita economica il premier è in difficoltà. Incapace di pesare in Europa. E di fronteggiare il populismo di Salvini (di Marco Damilano - l'Espresso)
20150703L'ultimo giorno di giugno scorre a Palazzo Chigi percorso da inquietudini finora sconosciute. Il primattore di Firenze è costretto a fare da comprimario in Europa, mentre si avvicina l'ora del giudizio, il referendum in Grecia convocato da Alexis Tsipras. Nelle stanze del governo si archiviano gli ultimi numeri dell'Istat sul ristagnante mercato del lavoro, 63.000a occupati in meno rispetto al mese precedente, e si discute con preoccupazione di quelli che devono ancora arrivare. Si è chiuso il secondo trimestre dell'anno, decisivo per capire se l'annunciata ripresa economica metterà finalmente le radici o è destinata a deludere le aspettative, degli italiani e di Matteo Renzi. La stima sulla salute del Pil sarà resa nota tra un mese, all'inizio di agosto, ma la tempesta greca sull'euro non induce all'ottimismo. Il risultato del Pil vale molto di più dei sondaggi di popolarità del premier, in picchiata, e del voto amministrativo, negativo per il Pd. Oggi il Pil è al più 0,3 per cento, il segno positivo è stato acclamato come la fine della lunga recessione, ma se la buona prestazione dovesse subito afflosciarsi la navigazione di Renzi diventerebbe ancora più difficoltosa. Nelle acque interne e ancor più in quelle internazionali. Sul campo di gioco dell'Europa che nelle ultime settimane si è trasformato per il capo del governo in un terreno scivoloso, infido, ostile. In cui non conta correre, ma muoversi con attenzione, per non finire in trappola.
Per la prima volta da quando ha conquistato la presidenza del Consiglio, sedici mesi fa, Renzi appare in difficoltà. Sbiadito. Incerto. Un Matteo-senza, mai visto prima: senza strategia, senza progetto, senza alleanze, senza voce. E non per colpa dei gufi o dei rosiconi, della Cgil o della minoranza del Pd, avversari debolissimi, sempre tenuti in piedi dal premier che li aveva eletti a nemici di comodo per poi puntualmente sconfiggerli e «asfaltarli». Nel passaggio cruciale della storia europea, la rottura tra la Grecia e l'Europa, il governo non riesce a influenzare i protagonisti della crisi, le istituzioni europee, la cancelliera Angela Merkel. Si limita a parteggiare, si schiera per il sì all'accordo contro il no di Tsipras. Si affida all'unico italiano che conti davvero nel vecchio continente, Mario Draghi. Il presidente della Bce sta giocando nella crisi greca un ruolo da protagonista politico: gestisce il flusso dei fondi alle banche elleniche, tratta in prima persona con Tsipras, si fa garante che non ci sarà il contagio della speculazione sulle altre fragili economie europee. Renzi lo sostiene, da lontano, un po' come quando gli azzurri di calcio sono esclusi dalla finale e i tifosi si accontentano di vedere in campo un arbitro connazionale.
Sull'emergenza immigrazione, il bollettino degli ultimi giorni segnala tremila migranti sbarcati in tre giorni, la solidarietà dell'Europa si è rivelata soltanto «un passettino in avanti», così un Renzi improvvisamente minimalista ha definito l'accordo sulle quote di rifugiati da accogliere nei paese europei raggiunto all'ultimo Consiglio europeo a Bruxelles dopo un violento scontro con i governi del Nord e dell'Est Europa. Una magra soddisfazione. E dire che fino a qualche settimana fa il refrain renziano era un altro: «Il Pd alle elezioni europee del 2014 ha preso undici milioni di voti. Il partito più votato, in termini di popolazione sarebbe il nono paese dell'Ue. Ci facciamo rispettare».
Era il Matteo trionfante e vincente, il Renzi Uno rimpianto dal premier. Il Renzi Due è quello che sull'immigrazione ripete: «Devo trovare le parole giuste. Tra la demagogia di chi agita la paura e il buonismo superficiale», ammettendo dunque che la giusta comunicazione non è stata ancora raggiunta. La doppia emergenza, Grexit e sbarchi, lo spinge alla ricerca di una strettissima terza via. Il messaggio arriva flebile, confuso, irrilevante. Una beffa per il grande comunicatore. Soprattutto in questo momento che il no all'Europa e il blocco degli sbarchi sono bandiere sventolate nelle piazze e nei talk e saldamente in mano all'altro Matteo in crescita nei sondaggi, il Salvini leghista.
Un'impasse inaspettata solo fino a qualche settimana fa. E che si estende a tutti i capitoli su cui Renzi ha costruito la leggenda della sua leadership invincibile. Primo capitolo: la ferrea guida del partito, il Pd, andata in frantumi tra primarie contestate, scissioni a sinistra (dopo Pippo Civati, Stefano Fassina) e il territorio fuori controllo. A Roma Renzi aveva dato il benservito a Ignazio Marino e il sindaco azzoppato per ora resta al suo posto. In Campania il rebus di Vincenzo De Luca, il presidente-non presidente, assomiglia sempre di più a un racconto di Borges. In Calabria l'intera giunta di Mario Oliverio è indagata per l'uso privato dei rimborsi elettorali: su tre assessori due sono sotto inchiesta e il terzo arrestato. In Sicilia il Pd fedele al sottosegretario renziano Davide Faraone prova a sfiduciare il presidente Rosario Crocetta. In Puglia Michele Emiliano è sotto tiro per aver nominato come portavoce la sua compagna Elena Laterza (che in realtà lo affianca nella vita e sul lavoro da quando Emiliano era sindaco di Bari) e il Pd locale gli chiede di non entrare in collisione con il governo nazionale. E nella maggioranza c'è il fragile Ncd di Angelino Alfano che perde pezzi: ogni giorno o quasi un suo parlamentare finisce nel mirino della magistratura.
Secondo capitolo: il decisionismo. Vacilla il mito del Renzi che non indietreggia mai. Sulla scuola il premier ha dovuto piegarsi a qualche concessione tardiva (gli insegnanti si erano già mobilitati contro il governo). Sulla riforma della Rai c'è buio pesto. La riforma della pubblica amministrazione è finita in fondo all'agenda parlamentare e governativa. E sulla partita più importante, la riforma della Costituzione, al Senato i numeri sono in bilico.
Terzo capitolo: la comunicazione. Per mesi Renzi ha goduto di una luna di miele con i media, largamemte ammaliati dal giovane premier, ha dettato da Palazzo Chigi con il suo spin-portavoce Filippo Sensi, l'agenda delle notizie e dei temi da lanciare nel dibattito. Ogni giorno una trovata. Perfino le immagini del premier erano largamente pilotate dagli strateghi del governo. Una storia di successo interrotta simbolicamente dalla foto di Renzi e di Matteo Orfini ai comandi della playstation la notte delle elezioni regionali. «Un epico fiasco», l'ha definita Christian Salmon, il teorico della storytelling applicata alle leadership politiche. Da allora in poi su temi sensibili come la sicurezza e l'immigrazione l'egemonia mediatica è saldamente in mano a Salvini, onnipresente in tv e sdoganato anche nei salotti buoni, come dimostra la lunga intervista al "Sole 24 Ore" di mercoledì 1° luglio. La sfida tra i due Mattei va al di là della comunicazione: per più di un anno nell'universo renziano la destra non è esistita, era un residuo del passato, la partita era tutta a sinistra, lì c'erano i nemici da battere: i sindacati, il vecchio partito, i radical chic, i frenatori di professione. Ora che bisogna rapidamente trovare gli argomenti per arginare una destra minacciosamente in sintonia con le paure e gli umori profondi di un pezzo di società italiana, Renzi sembra spiazzato.
Infine, c'è il capitolo Europa, su cui cominciano a piovere critiche anche da parte di qualche renziano di stretta osservanza. Troppa leggerezza. Troppa improvvisazione. E scarse capacità di negoziazione. È un momento di crisi, dei governi nazionali, delle leadership, dei partiti tradizionali. Renzi non fa eccezione. Di diverso c'è l'enfasi con cui il giovane premier ha rivenduto in patria il ritrovato peso dell'Italia negli organismi comunitari, con la nomina di Federica Mogherini, salvo poi essere smentito dai fatti. Sugli sbarchi il compromesso non è così lontano dall'obiettivo iniziale, costruire un meccanismo di accoglienza dei rifugiati nei paesi europei che fosse obbligatorio e non più volontario. Ma per ottenerlo è stato necessario un estenuante braccio di ferro in cui Renzi ha avvertito la solitudine dell'Italia. Sulla Grecia Roma è stata tenuta fin dall'inizio lontana dal gruppo di crisi guidato dalla Merkel e da François Hollande e non è riuscita a ritagliarsi un ruolo di mediazione con il governo ellenico.
Il dramma della Grecia, visto con la lente cinica di Palazzo Chigi, è soprattutto un ostacolo che impedisce all'Europa di prendere in considerazione quello che sta più a cuore al premier. La ricontrattazione dei parametri economici deficit/Pil. Da mesi Renzi ipotizza di rovesciare il tavolo. Nel documento di programmazione economica consegnato a Bruxelles il governo si è impegnato a restare nel 2015 entro il 2,6 per cento e a far scendere nel 2016 il rapporto deficit/Pil all'1,8. Ma è una camicia di forza che stritola qualunque ipotesi di crescita e che Renzi annuncia riservatamente di voler sfondare: non oltre la soglia del tre per cento ma almeno per salire al 2,5 o fino al 2,8 per cento nel 2016.
È una necessità vitale per il premier. Ottenere una deroga da Bruxelles sugli impegni presi significa mettere da parte dieci o addirittura quindici miliardi di euro da riversare sull'unica leva che può riportare Renzi in alto nei sondaggi di popolarità. Una radicale riforma fiscale, un drastico taglio delle tasse per imprese e persone fisiche, compresa la detassazione dei nuovi assunti già prevista (ma solo per il 2015) nell'ultima legge di stabilità, in continuità con il decreto sugli 80 euro che permise al Pd di superare il 40 per cento alle elezioni europee.
Nel pacchetto dei provvedimenti per riconquistare il consenso perduto ci sono la legge sulle unioni civili (su cui c'è il no dell'Ncd) e l'offerta alla minoranza del Pd, il ritorno dei senatori elettivi nella riforma costituzionale. Ma è puro contorno rispetto alla riduzione delle tasse su cui si gioca gran parte del futuro del governo Renzi.
Per questo è necessario che ad agosto i dati Istat sul Pil del secondo trimestre 2015 fotografino un'economia in crescita. Senza questa condizione non è neppure proponibile aprire una trattativa con l'Europa. Se i dati sulla crescita permettessero all'Italia di rifiatare, il governo potrebbe chiedere un allentamento dei parametri. E sul tavolo delle trattative si può giocare la carta della spending review ora in mano al deputato renziano Yoram Gutgeld. Impresa per nulla facile: il gruppo di lavoro che rappresenta l'Italia a Bruxelles, guidato dal ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan e dal direttore generale del ministero di via XX Settembre Vincenzo La Via, non è il più indicato a muovere la guerra ai colleghi europei. Ma anche Renzi, a suo agio in casa quando si tratta di strapazzare la Ragioneria dello Stato o il ministero dell'Economia, quando si tratta di combattere in trasferta, in Europa, si rivela improvvisamente tentennante. Questione di linguaggio: l'inglese, le competenze economiche limitate, l'allergia ai riti comunitari. Eppure è su questo fronte che si gioca la sua leadership in Europa e in Italia.
Tra i fedelissimi del premier c'è chi addirittura si spinge in segreto a tifare per una vittoria del no al referendum greco che almeno servirebbe a fare chiarezza piuttosto che una vittoria dei sì all'accordo con la Germania che invece finirebbe per prolungare l'ambiguità e le trattative ai tavoli europei da cui l'Italia risulta esclusa. Solo una provocazione, perché Renzi si è nettamente schierato, dalla parte di Angela Merkel contro Tsipras, mentre Beppe Grillo volerà ad Atene il giorno del referendum e Salvini dichiara (senza particolare calore) che se fosse greco voterebbe no. «L'Italia per l'Europa era il problema, poi è diventata un problema tra i tanti, ora non è più un problema», spiegano i renziani. Ma potrebbe tornare a esserlo se il caos greco dovesse travolgere l'euro. E la paura di Renzi non è tanto per un eventuale contagio economico, ma per le conseguenze politiche. Stare nella bufera, senza più parole.
Marco Damilano - l'Espresso


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