L'ESTATE INFINITA di CARLO DEFFENU

Da Carlo Deffenu

L'iniziativa LA MIA ESTATE è partita da qualche settimana.Raccontare una stagione così particolare, una stagione così abusata, miserevole, poetica, tragica, comica, fisica e sentimentale non è un'impresa facile.Inizio io pubblicando un racconto che partecipò l'anno scorso a un concorso indetto da IL CORRIERE DELLA SERA.
Buona lettura.
L'ESTATE INFINITA
I solchi di terra si spaccano sotto i raggi del sole come una fragile pelle, ferita e indurita da sette anni di terribile siccità. La pioggia è un lontano ricordo che puoi risvegliare soltanto con i racconti degli adulti, con i film che vedi in televisione e con le foto conservate nei cassetti delle case, gelosamente custodite come importanti testimonianze di un tempo che non esiste più.
I bambini nati dopo la siccità non sanno neanche cosa voglia dire la parola “pioggia”.
È impossibile immaginare un fiume d’acqua che scorre impetuoso tra le rocce scure, irrorando con la sua forza generosa le terre coltivate a grano, gli orti intorno al paese, le vigne e i frutteti inerpicati sulle basse colline, per chi non ha vissuto quei tempi.
Il letto del fiume è ormai un sentiero secco e polveroso dove pascolano indisturbate le bestie in cerca di arbusti e germogli. Tutto è morto con il passare dei mesi. Le scorte si sono esaurite. Le falde prosciugate. I pozzi rimbombano vuoti. Le cisterne viaggiano giorno e notte per portare il prezioso bene dalle terre del Nord, dove l’acqua sembra non mancare mai, e gli affari prosperano sulla pelle dei disperati.
Gli abitanti del piccolo paese affossato nel cuore pietroso dell’isola, attendono con bidoni, recipienti e bottiglie l’arrivo della cisterna per i rifornimenti settimanali.
Il comune ha cercato di mantenere l’ordine organizzando una scala di priorità: prima vengono le famiglie con bambini piccoli, subito dopo le famiglie con malati e anziani, seguono le famiglie con figli adolescenti, le coppie senza figli e per finire i single, che se la passano peggio di tutti.
Sono sempre gli ultimi della fila e difficilmente riescono a conquistarsi una razione d’acqua sufficiente per le necessità primarie.
Gioacchino, conosciuto da tutti come Pulce, ha letto in un libro del fratello maggiore, che in quel Nord, irraggiungibile con la fantasia, i ghiacciai si sciolgono come giganteschi ghiaccioli sotto il sole, il mare sale di livello, gli orsi bianchi diventano mezzo maschi e mezzo femmine, e che città belle come Venezia, ma persino quelle brutte, appiccicate sulla costa come zecche infette sul culo smunto di un cane randagio, scompariranno senza lasciare traccia di sé.
Il mare salirà così tanto da mangiarsi spiagge, porti e campi.
Le barche e i pescherecci arriveranno a lambire le punte della colline e i pesci abiteranno le case degli uomini, le strade e le terre sommerse.
Tutto quello che prima era impossibile diventerà normale.
Il mare per un bambino come Pulce è un concetto astratto quanto la pioggia.
Ci è andato solo una volta con Salvo, il cugino del padre che doveva consegnare un vecchio furgone a un amico e versare, con il ricavato della vendita, l’anticipo al concessionario per una macchina nuova. Quell’incredibile spettacolo liquido si era limitato ad ammirarlo dal finestrino del furgone, quando avevano superato la curva di un promontorio roccioso e il mare era venuto loro incontro in un esplosione di azzurro.
La mandibola di Pulce si era smollata sul petto e gli occhi, spalancati per la meraviglia, lo avevano trasformato nell’imitazione perfetta di quel fesso di Crepito, che se ne sta sempre seduto fuori dalla porta di casa, con lo sguardo spiritato e la bocca aperta, a guardare non si sa bene cosa lungo la strada impolverata.
Salvo lo aveva preso in giro dicendogli che sembrava proprio Crepito sputato con quell’espressione idiota, e Pulce si era offeso, rispondendo indispettito che non era vero che rassomiglia a Crepito, il figlio della fornaia. Con il broncio aveva guardato sfilare fuori dal finestrino le gobbe delle colline, le spiagge abbaglianti, le pinete ombrose, le insenature lambite da specchi d’acqua di un limpidissimo verde chiaro, e si era chiesto più di una volta come era possibile che tanta acqua si trovasse tutta nello stesso punto. Placida e sfacciata nella sua luminosa bellezza.
Al suo paese non se ne trovava una goccia a spremere con il torchio cento zolle di terra, e qui era ovunque volgevi lo sguardo. Salata certo, ma sempre acqua.
Erano fortunati i pesci che ci potevano sguazzare dentro e se ne fregavano della siccità e della sete.
Bastava che aprissero la bocca e tutta l’acqua che desideravano passava tra i loro piccoli denti, filtrata dal rosso delle branchie e li ubriacava, li nutriva, li salvava.
Pulce aveva letto che le branchie erano fatte apposta per quello, ma era sempre bello pensarli a bocca aperta, sparire lucenti come missili di metallo, sotto il pelo dell’acqua.
Ci aveva provato a chiedere allo zio se quando finivano con il furgone potevano fermarsi vicino al mare per metterci i piedi dentro e vedere che effetto faceva.
Salvo aveva bofonchiato un “vedremo” poco convinto e aveva continuato a fumare con il mento proteso in avanti.
Alla fine della mattinata si erano fermati a mangiare pesce fresco in una trattoria.
Pulce si era dovuto accontentare di corteggiare il mare dal grande finestrone che si affacciava sul porto, mordendo delle sardine fritte, croccanti come patatine, e provando a immaginare il tocco dell’acqua intorno alle sue caviglie.
Pulce ha compiuto da poco nove anni e si ricorda a malapena l’ultima pioggia caduta dal cielo.
Quel giorno si trovava nei campi con Piero, il fratello che allora aveva otto anni. Stavano guardando il trattore guidato dal padre, quando le nuvole che coprivano il sole buttarono giù un acquazzone tanto potente da assordare chi non si copriva le orecchie con le mani.
Pulce aveva cominciato a saltare a piedi nudi sulla terra grassa, ridendo felice mentre Piero dava il tempo, battendo con il piede e le mani il ritmo delle gocce sulle foglie e i fili d’erba.
Sono passati sette anni da quella pioggia improvvisa e ora il cielo sembra un telo celeste steso sull’orizzonte indifferente.
Neanche l’ombra di una nuvola dispersa. Soltanto sole abbagliante e caldo infernale.
Pulce si chiede dove siano andati a finire suo padre e suo fratello. Quella mattina sono usciti di casa senza svegliarlo. Quando si è alzato dal letto per fare colazione, ha trovato solo la caffettiera sul fornello e due tazzine abbandonate nella vasca del lavandino.
Sua madre ha bofonchiato una frase poco chiara per giustificare quella levataccia: in piedi su una sedia con un fazzoletto intorno al viso per proteggere il naso dalla polvere, ha continuato a pulire i pensili di cucina con l’aiuto di uno straccio umido.
Pensa a quella strana sparizione anche adesso che conta gli uccelli che passano sopra la sua testa, disteso sul muretto a secco del terreno che un tempo è stato coltivato a grano. Una scheggia nera di piume che appare e scompare in quell’abbagliante chiarore.
Sarebbe bello fare un giro per le campagne alla ricerca di pezzi di legno, cocci di vetro, pelli secche di serpente, elitre di coleottero per la sua collezione di cose strane, ma sembra che in paese siano tutti scomparsi, ingoiati dalla terra morta senza nessun rumore di ossa triturate.
Durante l’ultimo rifornimento la sua famiglia non è riuscita a garantirsi scorte d’acqua sufficienti per colpa di Piero, che ha rotto una damigiana durante lo scarico dei recipienti dal cofano della macchina. Suo padre ha imprecato per la rabbia e per calmare il nervosismo ha preso a calci un bidone vicino al pozzo asciutto.
Piero è sbiancato in viso e si è nascosto nella baracca degli attrezzi per evitare che quella rabbia si rivolgesse contro di lui.
In paese la tensione è salita a tal punto che basta davvero poco perché la gente urli e litighi per i motivi più assurdi. La domenica prima, nel piazzale vicino alla chiesa, due uomini si erano insultati e picchiati per colpa di una precedenza non rispettata.
Pulce aveva osservato la scena con la sgomento di uno spettatore che guarda un film alla tv. Improvvisamente gli animi si erano surriscaldati a tal punto che l’uomo magro aveva tirato un pugno verso l’uomo più basso, colpendolo in piena faccia. Il sangue, schizzato dalla narici e dal labbro superiore, aveva imbrattato le camice bianche dei due contendenti.
La moglie dell’uomo basso era scesa dalla macchina come una furia e aveva cominciato a urlare, battendo la testa dell’avversario con la borsetta.
Pulce si era spaventato così tanto alla vista del sangue, che quando l’uomo basso si era accasciato inerme sull’asfalto del parcheggio, era scappato di corsa verso il portone della chiesa, salendo con il fiato mozzato in gola la scalinata di marmo. Con il cuore che batteva all’impazzata aveva cercato rifugio in un angolo vicino al confessionale, sedendosi sui talloni per calmare il battito e riprendere a respirare regolarmente.
C’erano delle donne vestite di nero piegate sui banchi tra le navate. Inginocchiate con il rosario tra le dita, i capelli raccolti sotto grandi fazzoletti scuri, mormoravano preghiere incomprensibili, smuovendo appena le labbra. Il ronzio delle candele elettriche accompagnava quel lento ruminare di colpe e pensieri. Sembravano tante mantidi religiose prontea sbranare i loro figli.
Padre Mario era comparso con la sua tunica nera da dietro una statua di Santa Rita e aveva fatto cenno a Pulce di seguirlo alzando due dita. In sacrestia aveva aperto l’anta di una grande credenza e aveva tirato fuori un vassoio di tiricche con la sapa.
«Due uomini padre, si picchiavano davanti alla chiesa…c’era tanto sangue!» disse Pulce, con il cuore ancora in subbuglio e le mani incerte intorno a un legaccio della felpa.
«Assaggia questi dolci» rispose padre Mario, come se neanche una parola fosse stata appena pronunciata. «Me li ha portati la vedova Isoni. Senti che meraviglia… »
Allungando una mano porse una tiricca a Pulce e con un sorriso ne portò un’altra alla bocca, mordendola con la dentatura perfetta che si chiuse come una tagliola sulla pasta morbida.
Pulce assaggiò il dolce che gli veniva offerto e buttò giù un sorso di succo alla pesca che sapeva di stantio, osservando le madonne e i santi raffigurati nei quadri appesi alle pareti.
«Domenica servirai messa, vero figliolo?» chiese padre Mario.
E Pulce, ingoiando il boccone, rispose di sì con la testa. L’odore di cera e incenso lo stordiva tutte le volte che entrava in sacrestia per prepararsi per la messa, e quando finiva il suo compito e usciva dalla porta con il cartello “Bussare prima di entrare”, il fresco della chiesa lo pugnalava con una stilettata lungo la schiena.
Si consolava con i cioccolatini che padre Mario gli regalava come premio per la sua devozione alla fine di ogni messa e tornava a casa, seminando il percorso con la carta stagnola colorata tutte le volte che scartava un nuovo cioccolatino.
Aveva parlato della lite nel parcheggio della chiesa anche con i genitori. Suo padre aveva ascoltato il racconto e minimizzato con una risata l’accaduto. Sua madre si era stretta le mani sul seno, con la faccia allarmata, mentre ascoltava il particolare del naso che esplodeva in un fiotto di sangue.
In quella settimana di emergenza idrica si erano trovati costretti a scegliere tra l’ipotesi di usare l’acqua per lavarsi e quella di conservarla per cucinare e dissetarsi. Di comune accordo avevano deciso che si poteva puzzare anche un po’, ma non si poteva di certo morire di fame.
La cosa più difficile era stato sopportare l’odore dei piedi di Piero quando la notte si toglieva le scarpe da ginnastica. Se ti strofinavi le narici con l’olio profumato della mamma ce la potevi fare a prendere sonno senza morire soffocato.
Pulce non sa davvero come far passare il tempo di quel pomeriggio che ristagna lento e pesante.
Annoiato si alza a sedere sul muretto e salta giù, sollevando una nuvola di polvere.
Il paese è adagiato in una depressione tra due basse colline e i tetti di tegole risplendono sotto il sole come lingue di cani assetati.
Pulce s’incammina verso casa continuando la conta degli uccelli.
Spera di arrivare fino a cento prima della fine della strada.
Rachele gira le cipolle nella padella, condendole con mezzo pomodoro secco e olive verdi. Il profumo intenso del soffritto si spande nella cucina e le lacrime che arrossano gli occhi, evaporano sulle guance pallide. Le cipolle non hanno nessuna colpa. Piange in silenzio, continuando a sbrigare le faccende di casa con movimenti oliati dall’abitudine.
Sa dov’è suo marito e a fare cosa e teme che il destino giri le carte della disgrazia e della sfortuna. Piero è soltanto un ragazzino di quindici anni per un’impresa pericolosa come quella. É vero che la situazione è arrivata ormai a un punto critico. Che il cane è morto di sete e che la stessa sorte è toccata alle ultime galline rimaste nel pollaio. É vero che non c’è più grano da mietere, verdura e frutta da raccogliere, è vero che la terra si sgretola in polvere tutte le volte che la gratti con la mano, è tutto miseramente vero, ma quello che pensa di fare Manlio per salvare il salvabile è fuori dalla volontà di Dio.
«E che fine ha fatto Dio?» le ha chiesto suo marito aprendo la porta di casa e indicando il cortile arroventato con il braccio teso. «Dove si è infilato? Gioca forse a nascondino con le nostre piccole vite? Mi dici dov’è? Dove?» grida provocatorio Manlio, con le braccia tese di rabbia e impotenza e lei, donna muta, non ha saputo cosa rispondere; perché è vero che la fede vacilla davanti alla sete, alla fame e alla desolazione e non esistono preghiere capaci di riportarla sulla retta via.
Pulce entra in casa e chiama il fratello. Rachele si asciuga le lacrime con il grembiule e risponde che non c’è nessuno.
«Ma dove sono finiti tutti quanti?» chiede Pulce, entrando in cucina.
«Tuo padre aveva da fare una cosa con Gianca e Manolo, e tuo fratello chissà dov’è… » risponde Rachele, voltandosi verso il figlio per vedere come si è ridotto i pantaloni e la maglietta.
Ogni volta che rientra a casa dai suoi giri per i campi e le viuzze del paese è sempre sporco di terra e polvere. Pulce sfila dalla tasca posteriore dei pantaloni una piuma bianca e un pietra verde che riluce sotto il lampadario acceso.
Con un sorriso appoggia il piccolo tesoro sulla tovaglia apparecchiata per quattro, annusando l’aria.
«Che fai di buono?» chiede, aprendo il frigo per prendere la brocca dell’acqua. Si accorge che ne è rimasta soltanto una piena fino all’orlo e dopo un attimo di esitazione decide che può benissimo aspettare il ritorno degli altri per rinfrescarsi la gola secca.
Richiude lo sportello e si siede in silenzio, prendendo la pietra per osservarla controluce.
«Preparo un sughetto con i pomodori che ho trovato al mercato. Arrivano dall’estero. Sono enormi e rossi come peperoni. Speriamo siano anche buoni. E tu, piccola peste, dove sei stato?»
«Al vecchio campo di grano…ma era una noia pazzesca…non c’era niente da fare. »
«È venuto a cercarti quel tuo amico con la faccia piena di cacche di mosca. Gli ho detto che eri uscito subito dopo pranzo. Ti ha mica trovato?»
«No, per fortuna. Non fa che dire stupidate.»
«Di che tipo?»
«Dice che vede i fantasmi e che parla con loro» risponde Pulce, continuando a guardare la pietra verde.
«Dice così?» chiede stupita Rachele, che ha sempre nutrito una paura inspiegabile per i morti e i fantasmi. Se vede un film horror alla televisione non dorme per giorni interi. Per questo Manlio gira sempre canale quando trasmettono film di mostri e serial-killer. Non vuole passare il resto della notte insonne, con la moglie rigida come una lastra di marmo sull’altro lato del materasso.
«E che fantasmi vede? Di gente che conosce?» insiste Rachele, aggiungendo i pomodori freschi nella padella e aggiustando di sale.
«Ma mica è vero che li vede!» sbotta Pulce, stupito di quanto sia credulona sua madre. «Se lo inventa per farsi grande e sembrare meno stupido di com’è!»
«Ah…» esclama Rachele, delusa che suo figlio ne sappia più di lei su come vanno queste cose. Sotto la luce del lampadario con le bocce di vetro soffiato, comprato nella bancarella di un antiquario durante il viaggio di nozze, guarda suo figlio: i capelli neri tagliati corti, gli occhi scuri concentrati nell’osservazione della piccola pietra, la bocca e la fronte corrugate in un’espressione adulta, le ricordano la cocciutaggine giovanile di suo marito. Le cose non sono cambiate con il passare degli anni. I difetti si sono semplicemente affilati come lame di coltelli.

Manlio non fuma da una settimana e si mette sempre sopravento quando gli amici fumano una sigaretta per non sentire l’odore del tabacco che brucia. É nervoso e mastica sempre una gomma per allentare la tensione. Ma ora, nascosto tra i cespugli sul bordo della strada, dentro il furgone di Gianca, non ha potuto resistere alla tentazione di fumarsi una sigaretta per calmare i nervi e ha ceduto all’offerta di Manolo. La fabbrica della birra ha chiuso. Manolo e Gianca hanno perso il lavoro. Niente più birra locale nei bar. Quella che tutti i fine settimana ubriacava il paese e incuriosiva i rari turisti di passaggio. Ora ci sono solo birre tedesche e irlandesi. Manlio continua a lavorare nella sua officina meccanica. Il petrolio non si è esaurito. Le macchine continuano a circolare e a rompersi, e anche se il lavoro è calato drasticamente, c’è sempre un pezzo da cambiare e un guasto da riparare.
Ringrazia il cielo di non aver ceduto alla tentazione dello stipendio fisso garantito dalla fabbrica, e di aver continuato a credere nelle potenzialità dell’officina lasciatagli in eredità dal padre.

Un uomo taciturno e sorridente, morto d’infarto tra il grasso e i motori, senza emettere un lamento.
Si era accasciato sul vano motore di una Ford e non si era più rialzato.
Manlio fuma e pensa alle parole che avrebbe usato il suo vecchio in una situazione come questa, ma per quanto si sforzi alla mente torna a galla solo l’immagine della sua bocca che annuisce.
In questo si somigliano come due gerini in una pozza d’acqua.
Manolo dice qualcosa e Manlio fa finta di sentire.
L’aroma della sigaretta è l’unica cosa che gli interessi in quel momento.
Piero è fermo due chilometri più avanti, seduto sulla sella del suo motorino e fuma anche lui. Il suo compito è semplice: chiamare il padre con il cellulare appena vede passare la cisterna e sparire subito dopo in direzione opposta. Penseranno loro a tutto il resto. La curva scelta con cura nei giorni precedenti è sufficientemente stretta per costringere l’autista della cisterna a rallentare.
Basta questo. Farla rallentare e poi…poi…sarà tutto più facile.
Cesare Cazzari fa l’autista da trent’anni. Ne ha compiuto cinquantasei il mese prima e mentre spegneva le candeline della torta alla crema comprata nella pasticceria più rinomata della città e sorrideva alla moglie, ai figli e agli amici radunatisi per festeggiarlo, aveva capito, anzi, gli era esploso nel cervello il petardo della consapevolezza: era ora di finirla con quella vita randagia. Basta con l’odore di grasso, di benzina e di gomma bruciata. Basta con le poche ore di sonno, i chilometri da macinare e la solitudine notturna nel cassone o, se gli girava bene, in qualche pensione economica con una puttana raccolta per strada.
Guida sovrappensiero, in quel tardo pomeriggio che si stempera in una sera rossastra, e si domanda perché la notte arrivi sempre troppo in fretta, sorprendendolo sull’asfalto, stravolto dalla stanchezza e inseguito da pensieri che corrono più veloci delle ruote.
É in ritardo e lo sa bene. Doveva arrivare tre giorni prima, ma un guasto al motore ha bloccato la consegna e la zona di sua competenza è rimasta tagliata fuori dai rifornimenti, con tutta l’esasperazione che questo alimenta negli animi degli abitanti stremati dal caldo e dalla sete.
Si chiede quanto durerà questa siccità e come risolveranno il problema della sopravivenza se la situazione climatica non cambierà in tempi brevi.
Ci saranno migrazioni di massa verso il nord? Prenderanno dal mare l’acqua che non arriva dal cielo? Si ammazzeranno per un bidone d’acqua?
Si parla già di lobby potenti che vogliono privatizzare le fonti.
Si sussurra di mercato nero, imbrogli, appalti truccati, malavita organizzata: tutti tentano di allungare le mani su un mercato che promette enormi guadagni per chi avrà il controllo sul bene più prezioso: l’oro liquido.
Cesare è un uomo ottimista e propositivo di natura, ma guardando il cielo arroventato del tramonto, inizia a pensare seriamente che quell’estate non finirà mai.
Piero avverte la vibrazione con la pianta dei piedi prima ancora di vedere le luci dei fari. Si acquatta contro la roccia che lo nasconde alla vista e spegne la sigaretta per non farsi tradire dal bagliore della brace. Lo ha visto nei film western che se uno fuma nella notte possono vederlo da lontano, mirare un po’ più su e sparargli una pallottola in mezzo agli occhi.
Un terzo occhio nero, sanguinolento e cieco, che avrebbe spento gli altri due senza dare il tempo al cow-boy di capire che quella sarebbe stata l’ultima tirata della sua vita.
La cisterna rossa e gialla passa davanti a Piero e l’aria calda lo investe sollevando i capelli duri, impastati di polvere e sudore, come la visiera di un cappello. É da dieci giorni che non li lava e oramai si sono compattati in un casco di cheratina secca.
Prende il cellulare dalla tasca dei jeans e chiama il padre.
Il segnale è potente. Pronuncia solo poche parole: «È passata ora.»
Fine della comunicazione.
Cesare Cazzari pensa a sua moglie con le tette grosse che si inchina con le calze a rete e improvvisa uno spogliarello per festeggiare in privato il suo ultimo compleanno.
«Adesso vedi cosa non ti combino!» gli ha sussurrato Clara iniziando a muovere i fianchi generosi. Neanche le puttane che ogni tanto rimorchia negli autogrill ci mettono tanta passione in quello che fanno. Ha sempre amato il contrasto tra l’aria composta e seria che esibisce in pubblico, e l’indole seducente e appassionata che esprime nell’intimità del letto coniugale. Pensa a tutto questo mentre canticchia una canzone del Boss che trasmettono alla radio, e si prepara ad affrontare quella curva stretta che precede di pochi chilometri il paese, cominciando a rallentare.
«Come ci dividiamo l’acqua?» chiede Manolo, scendendo dal furgone per mettersi in posizione.
«Ci penseremo a cose fatte» risponde Manlio.
«E l’autista? Che ci facciamo con l’autista?» chiede Gianca.
«L’autista non romperà il cazzo…e se rompe…ci penso io…» risponde Manlio, soppesando il bastone che stringe in mano, per sentirne il peso e la durezza. I fari della cisterna appaiono sulla strada. É quasi arrivato il momento di dimostrare a se stesso che sa prendersi cura della famiglia. Di sua moglie e di suoi figli. Rachele si potrà lavare con il sapone profumato comprato in città e lui potrà odorare ogni millimetro della sua pelle senza fermarsi per tutto il resto della notte.
Il sugo è pronto. Pulce guarda i cartoni animanti alla TV e preso dalle schermaglie di due robot che lottano nello spazio siderale, sembra non accorgersi del nervosismo che agita le mani di Rachele.
É già successo tutto? Quanto deve ancora aspettare prima di buttare la pasta e portare il catino a tavola per cenare?
Sta pensando per la milionesima volta all’eventualità di accendere il gas sotto la pentola dell’acqua, quando la porta di casa si apre ed entra Piero. É sereno e con uno strano sorriso sulle labbra. Rachele si avvicina alla porta e lo abbraccia forte.
«Tutto bene?» chiede.
«Sì, mamma, tutto benissimo» risponde e dopo essersi sfilato il giubbotto di jeans si butta sul divano al fianco del fratello.
Rachele avverte l’odore del fumo impregnato nella stoffa del giubbotto. Lo prende dalla spalliera della sedia e lo appende con una gruccia in corridoio. Riesce solo a pensare che Manlio deve aver ripreso a fumare di nascosto. Brutto vizio il fumo. Suo padre e suo nonno ci sono morti. Avvizziti come piante secche. Non vuole che il suo uomo e i suoi figli facciano la stessa fine.
« Tuo padre tarderà molto?» chiede, fingendo tranquillità.
«Tra un po’ arriva…dagli tempo…»
Già. Il tempo. Ecco cosa bisogna fare questa sera. Darsi tempo.
Manlio torna a casa molto più tardi del previsto, quando ormai l’acqua ha già bollito, la pasta è stata cotta e mangiata e il sonno ha vinto le resistenze di Piero e la curiosità di Pulce. Rachele ha conservato un piatto di pasta nel forno, riordinato la cucina e poi, sfinita dall’attesa snervante, si è assopita sul divano, davanti al televisore con il volume al minimo. A svegliarla è stato il tocco di una mano calda sul viso. Si è messa a sedere, con gli occhi annebbiati, stiracchiando le braccia intorpidite, guardando suo marito per sapere com’è andata prima ancora di sentirlo dalla sua voce. Manlio non dice nulla. Si libera della camicia sporca e si sdraia vicino al suo corpo caldo. Con la mano cerca il seno sotto la vestaglia e con i polpastrelli sollecita il capezzolo, che si indurisce sotto la stoffa. Un bottone sensibile e reattivo agli stimoli di quelle dita voraci e gentili. Rachele si da tempo e lascia che il desiderio segua la sua traiettoria, senza porsi troppe domande e, soprattutto, senza farne.
Pulce si sveglia con la sete aggrappata alla gola come un ragno vorace. Guardando l’orologio sul comodino pensa che a quell’ora la cisterna sarà arrivata in paese da un bel pezzo e si chiede come mai non sia stato svegliato da Piero per correre verso il punto di raduno. Si alza impaziente dal letto, entra in cucina senza trovare nessuno e apre scalzo il frigorifero. Non può credere ai suoi occhi. I ripiani sono intasati da decine di bottiglie d’acqua. Si gira verso il soppalco e vede i bidoni grandi, quelli da cinquanta litri con il rubinetto alla base, pieni fino all’orlo. Tutti e tre. Un pizzicore strano lo prende dalle dita dei piedi fino alla radice dei capelli.
Esce in cortile per cercare sua madre e la trova vicino ai fili del bucato che stende la biancheria lavata. Odore di sapone di Marsiglia e di primavera. Bello come un sogno ad occhi aperti.
«Ciao, piccola peste! Ti sei svegliato finalmente?»
«Il frigorifero è pieno d’acqua, mamma!»
«Lo so.»
«Ma chi l’ha portata?»
«La provvidenza, piccolo mio. Chi altri se no?»
L’ora di pranzo arriva senza fretta. Pulce passa il tempo guardando i riflessi dell’acqua nelle damigiane allineate nel ripostiglio vicino alla cucina. Rachele ha cotto il minestrone. Ci vuole tanta acqua per prepararlo ed è un lusso che quella mattina si possono permettere. Non è come l’acqua della pasta, che dopo averla scolata la conservi per lavare i piatti o per altri utilizzi pratici. No, l’acqua usata per il minestrone è il minestrone stesso. Per non parlare del lusso di trovare tante verdure fresche al mercato per prepararlo come si deve. Piero è allegro e non la smette un attimo di parlare.
Pulce gioca con la sua collezione di cose strane nel ripostiglio e Rachele prepara la tavola con l’aiuto di Manlio. Il telegiornale parla della situazione catastrofica del tempo e della mancanza di pioggia, diventata oramai cronica. Il dramma dell’acqua e il commercio illegale dell’oro trasparente hanno incancrenito un malessere già radicato in profondità nelle zone più colpite dalla siccità.
Rachele è intenta a girare il minestrone quando la voce dello speaker alla TV attira la sua attenzione. Ha iniziato a parlare di un autista svanito nel nulla, e della cisterna da undici mila litri della ditta “Euro-Mailon” che doveva rifornire una zona del territorio particolarmente disagiata. Sullo schermo appare in sovraimpressione la foto dell’autista scomparso per aiutare la Polizia a risolvere il mistero.
Rachele guarda la faccia dell’uomo. Ha gli occhi tristi e gonfi e la faccia grossa, con il doppio mento che lo fa apparire ancora più vecchio dell’età dichiarata dal giornalista.
Quella faccia grassa riaccende nella sua mente il ricordo delle teste dei maiali esposte nella vetrina dal macellaio del suo quartiere. Teste che la fissavano tutte le volte che passava davanti al negozio, con i loro occhi spenti, la lingua penzoloni e il sangue rappreso sul muso sporco.
Si volta verso Manlio e suo marito abbassa lo sguardo.
Piero si zittisce all’istante e guarda il padre.
La domanda è sospesa nell’aria, ma nessuno osa formularla.
Pulce si alza dal pavimento del ripostiglio, entra in cucina con la pietra verde in mano e puntandola verso il sole che entra dalla finestra dice: «Guardate com’è bello il mondo tutto verde!»
A rispondergli è solo la sigla di chiusura del telegiornale.
CARLO DEFFENU

P.S.- ORA ASPETTO I VOSTRI RACCONTI, PIGRONI!!!
N.B. - la foto del post è del mio amico Roberto Foddai.

Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :

  • Una pura formalità

    Proiezione obliqua della realtà. Può una stanza contenere una vita intera? Una stazione di polizia dove fantasmi di carne aprono cassetti della memoria, e tiran... Leggere il seguito

    Il 01 luglio 2015 da   Aperturaastrappo
    MUSICA, RACCONTI
  • 'Hortense', he used to name her ...

    Hortense è un nome che suona particolarmente romantico, antico, altolocato, forse udito in qualche film che non ricordo o letto tempo fa tra le pagine di un... Leggere il seguito

    Il 01 luglio 2015 da   Daniela
    CULTURA, STORIA E FILOSOFIA
  • Esordienti Giugno

    Ritorna lo spazio dedicato ad alcuni autori esordienti, che ormai sono sempre di più quindi preparatevi ad una carrellata di nuove uscite e novità editoriali! Leggere il seguito

    Il 01 luglio 2015 da   Annalisaemme
    CULTURA
  • ANTONELLA CILENTO e VANNI SANTONI ospiti di “Letteratitudine in Fm” di...

    ANTONELLA CILENTO e VANNI SANTONI ospiti di “Letteratitudine in Fm” di mercoledì 1 luglio 2015 - h. 9:10 circa (e in replica nei seguenti 4 appuntamenti:... Leggere il seguito

    Il 30 giugno 2015 da   Letteratitudine
    CULTURA, LIBRI
  • Spazio Esordienti #11

    Buona sera ColorLettori! Diamo spazio nuovamente ad un'autrice ermergente, Daisy Franchetto, che ci presenta un romanzo a mio parere molto interessante e... Leggere il seguito

    Il 30 giugno 2015 da   Roryone
    CULTURA, LIBRI
  • Contro natura?

    Come forse sapete se leggete il mio blog abitualmente, io ho un passato da simpatizzante della destra religiosa. Sì, è un passato moooolto passato; parliamo di... Leggere il seguito

    Il 30 giugno 2015 da   Alby87
    CULTURA, STORIA E FILOSOFIA