“Insieme, padre e figlio attraversano il bosco, verso un profondo crepaccio, oltre l’acqua che filtra tra rocce acuminate e muschiose. Con cautela si addentrano nella spaccatura, là dove le pareti del monte quasi si toccano e la roccia si getta loro incontro da sotto e dai lati. Negli anfratti il bambino vede uccelli notturni dondolarsi nel sonno che li avviluppa. In alto, la vasta distesa del cielo si assottiglia in una stretta lama grigia. Ma, camminando sulla stessa linea del padre, il bambino non ha paura: procedono lentamente e infine emergono dalla fenditura in un prato di erba nuova ed esili ruscelli. il bambino corre verso la pozza più vicina, beve, schizza acqua e osserva il padre che si accovaccia e disfa un mucchietto di pietre dal quale estrae un’ascia e un coltello dal manico nero. Il padre ne saggia il filo sui polpastrelli, un dito gli sanguina. Poi si mette in tasca il coltello, e l’ascia in spalla, e chiama il bambino curioso e bagnato.
- Vieni. Dobbiamo tornare. E’ ora.
Ancora prima di arrivare il bambino vede gli uomini nel boschetto. Non hanno un fuoco, nè pipe da oppio, nè strumenti musicali, e poirché camminano avanti e indietro tra gli alberi, invece di restare fermi in attesa o seduti, il bambino è preso dall’inquietudine. Il suo cuore batte forte e gli sfugge un grido.
- Perché vagate a quel modo? Dove sono il sitar e il daf? Chi accenderà il fuoco?
Il cugino più giovane non leva la voce nè gli occhi, e con la punta del piede smuove il terreno e le foglie cadute. Il bambino vede un molle sorriso sfuggire dalle labbra dello zio, ma suo padre non offre spiegazioni nè conforto: ha l’ascia in spalla e un coltello nel pugno. Il bambino non è più allineato con lui; il gioco della piuma sul capo o la cerimonia della grotta adesso non gli interessano più, vuole solo le ginocchia incrociate di sua madre e le tristi canzoni che lo addormentano.”
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