L’eterno Paradosso di Fermi (III parte)

Creato il 29 agosto 2015 da Sabrinamasiero

Mentre nella prima puntata mi sono concentrato sul percorso che parte dalla vita e arriva fino allo sviluppo – almeno sulla Terra – di  una civiltà tecnologicamente avanzata, nella seconda credo di aver ampiamente dimostrato che un realistico piano di colonizzazione galattica non è poi di così difficile attuazione per una società abbastanza avanzata e motivata. Ma allora come rispondere alla domanda di Fermi “Dove sono gli altri?”?
La risposta quasi sicuramente è racchiusa nell’ultima incognita dell’Equazione di Drake: il fattore \(L\) che si occupa di stabilire quanto possa durare una civiltà tecnologicamente evoluta (qualcuno suggerì almeno 10 mila anni). Finora si è sostenuto che essa sottintendesse la capacità di una società tecnologicamente avanzata ad evitare l’autodistruzione per disastri ambientali estremi, guerre nucleari, etc.,  ma dobbiamo prendere in considerazione che possono esserci anche molti altri ostacoli, di certo meno violenti, che comunque portano al collasso di una civiltà in tempi molto più brevi.

Schemi ripetitivi nelle società umane

Le rovine di Tadmor (Palmira), che in aramaico significa palma. Era conosciuta anche come La sposa del deserto, dove Oriente e Occidente si incontravano sulla Via della Seta. Qui sono fiorite e poi estinte molte civiltà  del passato.

Continuando a ipotizzare che il percorso evolutivo della Terra sia tipico anche per il resto dell’Universo, si può ritenere che dall’analisi delle diverse esperienze sociali umane sia possibile estrapolare modelli plausibili che possono poi essere utili a dare una risposta al dilemma di Fermi.
Il caso del drammatico crollo dell’Impero Romano (seguito da molti secoli di declino della popolazione, deterioramento economico  e regressione intellettuale) è ben noto, ma non era che uno dei tanti cicli di  ascesa e crollo delle civiltà europee. Prima della civiltà greco-romana, erano fiorite altre civiltà (come quella minoica e quella micenea) che erano risorte da crolli precedenti e avevano raggiunto livelli molto avanzati di civiltà prima del crollo definitivo. La storia della Mesopotamia è in realtà la somma di varie civiltà sorte e crollate in quei luoghi come Sumer,  l’Impero Akkad, Assiria, Babilonia, etc. [1]. Lo stesso può dirsi dell’Antico Egitto, delle diverse civiltà anatoliche (come gli Ittiti), in India (imperi Maurya e Gupta) e nel sud-est asiatico (Impero Khmer). Ci sono inoltre evidenti analogie tra le diverse dinastie dell’Antico Egitto e le varie dinastie imperiali cinesi, dove periodi di splendore si alternavano a periodi di crollo politico e socio-economico.
Anche il Nuovo Mondo non era immune a questi cicli storici. Le civiltà Maya, Inca e Atzeca traevano origine da altre culture precedenti, ma il loro collasso definitivo avvenne col contatto con la civiltà europea che si stava espandendo nel nuovo continente. Le culture nord americane della valle del Mississippi (Cahokia), del sud-ovest americano (Anasazi, Hohokam e Pueblo) e la complessa civiltà polinesiana 1 si estinsero da sé dopo secoli di dominio culturale.
Tutto questo dimostra che l’evoluzione dei gruppi sociali segue da sempre dei cicli di crescita e declino, come dimostrano anche altri studi sulle società neolitiche [2]. Di solito questi cicli di espansione e declino (della durata media di 300-500 anni) non sono frutto di eventi eccezionali come epidemie o cataclismi naturali, ma sono il frutto di una rapida crescita della popolazione unito allo sfruttamento naturale oltre i livelli sostenibili.

I modelli sociali

Uno serio studio sugli schemi evolutivi dei gruppi sociali è stato fatto nel 2012 da Safa Motesharrei e Eugenia Kalnay dell’Università del Maryland e Jorge Rivas dell’Università del Minnesota [3]. Gli autori hanno ridotto gli schemi sociali a poche macrovariabili capaci comunque di descrivere abbastanza fedelmente le dinamiche che governano una società:

  • Popolazione (elite e popolo)
  • Risorse (esauribili e rinnovabili)
  • Ricchezza (risorse redistribuite)

Il modello adottato per questo studio è anche quello che più si ritrova in natura: il Modello Predatore vs Preda; per questo è anche quello che probabilmente può descrivere di più una possibile società extraterrestre. Infatti il modello predatore-preda – in questo caso gli esseri umani e la natura – è piuttosto comune presso anche molte altre specie animali.

In sintesi, i risultati ottenuti indicano che i crolli sociali storici (come l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali e/o una forte disparità economica tra le diverse classi sociali) possono essere causa di un crollo completo delle civiltà, come è avvenuto per l’Impero Romano, i Maya e la società Lapita.

L’unicità che contraddistingue la specie umana dagli altri animali è la sua capacità di accumulare grandi eccedenze (cioè ricchezza) per tamponare in parte o del tutto i periodi di scarsità di risorse quando esse non possono più soddisfare le esigenze abituali di consumo. Questa è la stessa capacità che ha permesso alla specie umana di creare strutture sociali più complesse del semplice branco e l’evolversi dell’intelligenza.
Queste strutture di solito prevedono che sia una elìte a controllare la quantità di eccedenze  prodotte e a redistribuire il minimo utile al resto del gruppo. Questa stratificazione sociale è importante per la dinamica del ciclo di evoluzione del gruppo sociale. Senza entrare nel dettaglio delle simulazioni, che comunque consiglio a chiunque fosse interessato di leggere, gli scenari presi in considerazione sono diversi e ognuno di loro presenta delle criticità evidenti che comunque convergono tutte verso uno scenario di crollo quando le sfruttamento delle risorse pro capite (ricchezza distribuita) supera il tasso di risorse  (pro capite) disponibile;  in fondo questo è quel che succede a tutti gli organismi viventi in natura quando le risorse diventano troppo scarse. Proverò a riassumere i quattro quadri che a mio giudizio sono i più indicativi:

  1. Modello sociale diseguale
    Una qualsiasi redistribuzione ineguale di ricchezza porta alla stratificazione sociale, dove l’elìte può permettersi di sopravvivere ai periodi di carestia a scapito del resto del gruppo che è invece destinato al declino dopo aver esaurito la sua parte di ricchezza. Il risultato è un crollo sociale, spesso accompagnato da episodi violenti e rifiuto di ciò che è stato, un po’ come avvenne con la Rivoluzione Francese. Un modo per invertire la tendenza verso il collasso richiede scelte politiche importanti come il controllo della crescita della popolazione e la riduzione delle diseguaglianze sociali.
  2. Modello sociale egalitario
    Anche una redistribuzione equa comunque non è affatto esente dal crollo sociale se la produzione di ricchezza supera la quantità di risorse disponibili; magari non è altrettanto brusca e violenta quanto la prima ipotesi ma lo scenario finale è comunque lo stesso: calo demografico e regressione culturale. Anche qui l’unica soluzione è che in qualche modo sia raggiunto un equilibrio tra risorse naturali consumate e quelle redistribuite.
  3. Modello sociale equilibrato
    Una qualsiasi società che impari a bilanciare la ricchezza prodotta con le risorse disponibili (non importa se il modello redistributivo sia equo o ineguale) non è esente da fenomeni di declino sociale, ma magari subisce oscillazioni più o meno ampie attorno ai valori che non le consentono affatto di evolversi (stagnazione sociale). In questo caso la destinazione di parte della ricchezza per progetti diversi alla semplice sopravvivenza del gruppo sociale potrebbe portare al suo crollo definitivo.
  4. Modello sociale espansionismo egalitario
    L’unico scenario che resta possibile è quello dell’espansione continua. Lungi da me giustificare scientificamente l’imperialismo europeo, resta comunque il dato che se l’Europa post-rinascimentale non avesse cercato altre vie per attingere risorse, non sarebbe sopravvissuta alle guerre al suo interno, mentre L’impero Romano segnò il suo destino quando decise di interrompere le sue conquiste, le risorse furono distratte per fronteggiare il malcontento interno e le elìte erano impegnate più a badare alle proprie ricchezze che alla cura dell’Impero.
    Quindi una società equa che si ponesse l’obbiettivo di espandere la sua area di sfruttamento delle risorse naturali disponibili è lo scenario a lungo termine preferibile, perché allontanerebbe da sé ogni rischio di conflitto sociale causato dalla stratificazione economica e dall’esaurimento delle ricchezze che potrebbero portare ad un crollo della civiltà, e sarebbe immune alla quasi altrettanto triste ipotesi della stagnazione del modello sociale equilibrato.

Ma quello che è più evidente è che se una qualsiasi civiltà inizia a erodere le risorse ambientali del proprio mondo troppo in fretta rispetto al naturale tasso di ricostituzione (come accade adesso per il caso terrestre) tende quasi inevitabilmente al collasso prima che possa acquisire la capacità di poter sfruttare l’inesauribile riserva di risorse posta al di fuori del suo pianeta.

Conclusioni

Dopo aver quindi ripercorso la vicenda terrestre, possiamo tentare di imporre qualche limite alle ipotesi di risposta alla domanda di Fermi.

  • Le attuali conoscenze scientifiche umane affermano che niente è più veloce della luce nel vuoto e che esplorare la galassia sarebbe certamente possibile ma unicamente a senso unico; anche le comunicazioni interstellari sarebbero comunque troppo lente per poter intavolare qualsiasi forma di dialogo con altre civiltà. Alla luce dell’importanza delle risorse naturali necessarie allo sviluppo di una civiltà planetaria è anche lecito supporre che una civiltà extraterrestre potrebbe considerare solo una grande perdita di tempo e spreco di risorse tentare intenzionalmente una qualsiasi forma di comunicazione con mezzi tradizionali (onde radio, laser etc).
  • Le condizioni per poter ospitare un pianeta di tipo terrestre nella nostra galassia esistono da almeno 8 miliardi di anni, anche se questo non significa necessariamente che ci siano pianeti  che ospitino o meno alcuna forma di vita.
  • Per la Terra sono occorsi 4 miliardi di anni prima che le più semplici forme di vita si evolvessero in organismi ben più complessi. Estrapolando questi dati verso altri mondi si può ragionevolmente ipotizzare che, se non avvengono fenomeni parossistici capaci di sterilizzare un pianeta come una supernova o un GRB vicino, oppure una improvvisa instabilità stellare o del sistema planetario, occorrono dai 4 ai 6 miliardi di anni per avere forme di vita complesse capaci di adattarsi – e adattare – l’ambiente circostante e sviluppare una qualche primitiva forma di consapevolezza.
  • Continuando ad usare lo stesso metro terrestre come paragone si ottiene che una qualche forma di intelligenza e tecnologia potrebbe essersi sviluppata su altri mondi tra gli 800 milioni e 5 miliardi di anni fa. Una civiltà così evoluta o potrebbe nel frattempo essersi estinta come illustrato in questo studio o aver trovato il modo  di prevenire il suo collasso imparando a gestire le sue risorse disponibili..

Anche se non è detto che il percorso vita – consapevolezza – intelligenza – tecnologia avvenga sempre e comunque su tutti i pianeti potenzialmente adatti, ognuna di queste condizioni deve superare delle criticità che possono compromettere uno qualsiasi degli stadi successivi. A fronte di qualche decina di milioni di pianeti potenzialmente disponibili forse in questo momento la Galassia può contare di ospitare una decina o forse meno di Civiltà tecnologicamente evolute tanto da dedicarsi all’esplorazione dello spazio e dotate di capacità di ascolto, ma questo porta a supporre che esse possono anche essere troppo lontane fra loro perché possa avvenire un qualsiasi contatto.


Note:

  1. Tra il 3000 e il 1000 a.C. popolazioni di lingua austronesiana si diffusero in tutte le isole del Sud-Est asiatico. Probabilmente il loro ceppo comune è da cercarsi negli  aborigeni dell’isola di Taiwan (la popolazione attuale dell’isola è di origine cinese perché questa fu al centro di una migrazione su larga scala nel corso del 1600). Le più antiche testimonianze archeologiche mostrano l’esistenza di questa cultura – chiamata Lapita – già 3500 anni fa e che sia apparsa nell’Arcipelago Bismarck , a nord-ovest della Melanesia. Si sostiene che questa cultura sia stata sviluppata là o più probabilmente, di essersi diffusa dall’isola di Taiwan. Il sito più orientale per i resti archeologici Lapita recuperati finora si trovano nelle isole di Mulifanua e Upolu. Il sito Mulifanua ha un’ età di circa 3.000 anni stabilita con la datazione C14.
    Nel giro di soli tre o quattro secoli circa tra il 1300 e il 900 a.C., la cultura Lapita – che includeva anche la ceramica, si diffuse 6.000 km più a est dell’arcipelago di Bismarck, fino a raggiungere le Figi, Tonga e Samoa. Intorno al 300 a.C. questo nuovo popolo polinesiano si diffuse da est delle Figi, Samoa, Tonga fino alle Isole Cook, Tahiti, le Tuamotu e le Isole Marchesi.
    Tra il 300 e il 1200 d.C. (la data è incerta), i polinesiani scoprirono e si installarono nell’Isola di Pasqua. Questo è supportato da evidenze archeologiche, nonché dall’introduzione di flora e fauna coerente con la cultura polinesiana e le caratteristiche climatiche di quest’isola. Intorno al 500 d.C., anche le Hawaii vennero colonizzate dai polinesiani mentre solo intorno all’anno 1000, quest’ultimi colonizzarono infine la Nuova Zelanda.