“L’Europa deporta”, storia e foto: l’esperienza di cinque richiedenti asilo della Provincia di Varese

Creato il 16 marzo 2016 da Stivalepensante @StivalePensante

“L’Europa Deportata” è un libro a metà strada, da una parte ad un saggio ed un libro fotografico, dall’altra ad uno scritto didattico ed una raccolta di storie di vite. Una ricerca sociale partecipativa, effettuata dall’antropologo Paolo Grassi, ed un esperimento di fotografia documentarista, curato da Matteo Spertini e da Christian Parolari. Il libro affronta la storia di cinque richiedenti asilo, ospitati presso un centro d’accoglienza della Provincia di Varese, “intrappolati” nella rete del trattato di Dublino.

In un momento in cui la situazione dei richiedenti asilo in Europa è molto delicata, tra i problemi alle frontiere con tutti i limiti dell’Unione Europea e degli stati membri, sia in campo sociale, che legislativo, Paolo Grassi, Matteo Spertini e Christian Parolari hanno pubblicato un libro dal titolo “L’Europa Deporta”. Sarà presentato il 3 aprile in Biblioteca a Laveno Mombello, con il centro giovanile “Sirà”, e il 24 aprile a Gemonio durante la “Resistenza in Festa”. Ecco l’intervista all’antropologo Paolo Grassi, che si è occupato della parte narrativa.

Da dove nasce il progetto di scrivere il libro “L’Europa deporta”?

Ho lavorato a fine 2013 in un centro di accoglienza per richiedenti asilo in Provincia di Varese. Si trattava di un centro esclusivamente dedicato a richiedenti asilo “dublinati”, cioè persone che erano passate dall’Italia o avevano attraversato le frontiere europee con un visto italiano, e da qui sono state spostate in maniera forzosa di nuovo verso l’Italia per effetto delle leggi europee. La richiesta d’asilo, infatti, in questo caso, viene gestita dal primo paese che identifica la persona. Quindi, mi sono trovato a lavorare solo con loro all’interno del centro. Con la psicologa della struttura abbiamo iniziato un percorso fatto di laboratori, dove in una prima fase abbiamo ripercorso i tragitti e i loro viaggi, e poi sono subentrato io conducendo un laboratorio di ricerca partecipativa e di analisi. Mi confrontavo con una decina di ragazzi e ragazze e ho subito chiesto loro: “voi siete in queste condizioni… quali sono i problemi maggiori con i quali vi state scontrando attualmente?”. Così abbiamo provato a mettere in ordine le criticità e pensare ad un’idea di progetto, cosa fare concretamente per cambiare la situazione. Si trattava di persone che in Italia fondamentalmente non ci volevano stare e si sono trovate qui contro la loro volontà o anche per ignoranza, non conoscendo il sistema europeo della richiesta d’asilo: hanno attraversato la frontiera italiana e si sono trovati a dover tornare indietro. Da qui è nata l’esigenza di voler informare le persone per quanto riguarda il regolamento di Dublino e le altre leggi che regolamentano la questione della richiesta d’asilo in Europa.

Quindi il libro “L’Europa deporta” ha un duplice destinatario: l’appassionato e curioso di conoscere meglio il tema dell’immigrazione e il richiedente asilo che ha necessità di essere informato sulla legislazione europea. E’ così?

Esatto, è proprio così. E’ il nostro obiettivo ideale e inizialmente avevamo pensato anche ad un lavoro multilingue con più traduzione, ma poi ci siamo fermati all’italiano e all’inglese perchè graficamente era più semplice. Il libro ha un testo in italiano con traduzione in inglese a fronte, proprio diviso in due dall’inizio alla fine e racconta, in pratica, cinque storie di viaggio. Persone arrivate da cinque paesi diversi con modalità differenti, persone in seguito tutte ‘deportate’, una parola che usano quasi sempre loro, in Italia o riportate indietro da altri paesi. Oltre a questo, c’è un lavoro fotografico che permette di intersecare le storie fra di loro. Le modalità per rappresentare questo argomento, con l’utilizzo dell’immagini e della fotografia, sono state delicate. Così, insieme a Matteo (ndr, Spertini) e Christian (ndr, Parolari), che hanno contribuito più di me in questo senso, abbiamo deciso di lavorare più sullo ‘still life’, vale a dire la natura morta, per rappresentare oggetti senza nessun tipo di contesto, oggetti simbolo scelti dai richiedenti asilo come loro bagaglio, lungo il cammino o il percorso compiuto.

Cosa rappresentano le fotografie all’interno del libro?

La richiesta a loro è stata semplice: “scegli un oggetto che possa rappresentare il tuo bagaglio”. Così abbiamo il telefonino, piuttosto che la foto di famiglia, o la medicina contro il diabete. Ognuno ha scelto degli oggetti particolari. Abbiamo, inoltre, voluto inserire diversi paesaggi perchè molto spesso questi oggetti personali vengono persi, quindi c’è il bagaglio disperso in mare, in treno, e così via. Far risaltare l’oggetto che non c’è più in realtà, che rappresenta una mancanza per loro.

Come mai avete scelto proprio questo titolo così forte e significativo, “L’Europa deporta”?

La parola è forte, ma era quella che è sempre stata utilizzata dai miei interlocutori. Non mi è mai stato detto “spostamento forzoso” o “trasferimento”. No, questo mai. Mi dicevano “ci hanno deportato in Italia”. Proprio per questa ragione ho voluto utilizzare la stessa parola, specificando nell’introduzione il motivo della scelta. Il testo, inoltre, mira ad essere anche di denuncia, quindi un titolo di questo tipo può richiamare l’attenzione maggiormente. Da allora, ad oggi, si è parlato tantissimo di richiedenti asilo e di profughi, quindi c’è molta più attenzione sul tema. Quando è nato questo progetto la situazione era molto diversa, ma l’esigenza di voler e dover informare rimane la stessa.

Attualmente hai contatto con i rifugiati che avete intervistato e che sono stati ospitati nella struttura della Provincia di Varese in cui hai lavorato?

Io oggi, dopo una pausa di un anno, ho ripreso a lavorare con i richiedenti asilo, in un progetto molto diverso, dell’accoglienza diffusa, vale a dire quella in piccoli appartamenti in Provincia di Varese. Sono molto soddisfatto di esser riuscito a contattare quattro dei cinque intervistati e spedire loro una copia del libro, spiegandogli che dopo due anni di lavoro abbiamo portato a compimento il progetto e siamo riusciti a pubblicarlo. Loro sono usciti tutti da quella struttura in cui si trovavano, che non c’è più, e senza entrare nel particolare, due di loro sono ancora in Italia, uno dei quali è ancora in mezzo alla procedura, non avendo ancora ricevuto una risposta definitiva sul diritto di asilo, mentre le altre due persone sono in Germania. Una di queste sta bene, è riuscita a ricongiungersi con alcuni familiari, invece l’altra è ancora in difficoltà in mezzo a questo sistema europeo che non funziona.

Quali sono le storie che vi hanno maggiormente colpito?

La cosa che più mi ha colpito e penso colpisca tutti è la differenza delle storie di ogni singola persona. Siamo troppo abituati a categorizzare e a ragionare per stereotipi, nonostante sia una frase fatta, per gruppi etnici, nazioni, profughi… quando in realtà analizzando ogni storia trovi una diversità di esperienze, di motivazioni, davvero variegate, che hanno spinto al viaggio e alla partenza. Il nostro ruolo, come quello dei giornalisti, dovrebbe essere  di dimostrare, prima di tutto, questa eterogeneità.

Come vengono analizzate le problematiche legislative riguardanti i richiedenti asilo?

Sotto un punto di vista di effetto sociologico, vale a dire le conseguenze che queste norme portano nelle vite dei richiedenti. C’è anche una critica ad un sistema che non funziona e che lo si può denotare quotidianamente. Non si propongono delle soluzioni, ma è necessario parlarne e pensare ad alternative sensate.

Nella tua esperienza di antropologo, che ha lavorato in centri di accoglienza in Provincia di Varese, qual è il tuo giudizio sulla popolazione locale? Ti è capitato di vedere o di sentirti raccontare situazioni in cui si è manifestato razzismo oppure, la percezione che si ha dei varesotti è sbagliata è vi è una maggiore tolleranza rispetto ai migranti?

Chiaramente in generale c’è molta preoccupazione, ma secondo me dipende anche molto dal tipo di accoglienza che garantiamo loro. Io mi sono ritrovato in un grande centro, un ex albergo, e naturalmente un tipo di accoglienza così ha un impatto maggiore, ma ci sono altri tipi di accoglienza che hanno un impatto sul territorio e sulla popolazione meno invasivi e che reputo più vincenti. Lavorare sull’accoglienza di piccoli gruppi, di inserimento in appartamenti, ti permette di lavorare in maniera migliore. La mia esperienza attuale, nonostante vi siano dei problemi, testimonia delle belle alternative dove anche le comunità locali si stanno rivelando non solo tolleranti, ma anche accoglienti e di grande aiuto. Mi riferisco a volontari che si sono offerti per tenere corsi di italiano ai ragazzi che seguiamo, portarli a fare delle visite, per inserirli in attività sportive… Penso vi siano delle esperienze positive che vanno valorizzate. Dobbiamo cercare il miglior tipo di accoglienza che possa essere più efficace per la loro integrazione e se dobbiamo combattere le paure e le ansie di persone, che non si sono mai avvicinate al tema e non lo conosco, beh, ragionare sul tipo di accoglienza può dare dei buoni risultati.

Un libro interessante con una tematica delicata, ma affrontata con rispetto in base alle esperienze e alle peculiarità di ognuno di questi cinque rifugiati. Cinque, in questo caso, ma che potrebbero essere dieci, cento o un milione. Provare ad informare la popolazione del territorio, parlando delle situazioni che si vivono quotidianamente, e, invece, spiegare ai richiedenti tutte le criticità che potrebbero essere chiamati ad affrontare venendo in Europa, è già un piccolo passo verso l’integrazione. A questo sarebbe utile aggiungere modalità diverse di accoglienza, cercando di limitare al massimo le intolleranze: anche questo potrebbe essere un ulteriore step verso il multiculturalismo e la multietnicità che, in un modo o nell’altro, ci accompagnerà nei prossimi decenni.