La piccola Europa, ancor più piccola nella sua versione d’Occidente, assiste ora distratta, ora semplice spettatrice impotente al sorgere possente del Nuovo Medioevo preconizzato nel lontano 1923 dal filosofo russo Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev. Un evo frenetico, in cui “tutti gli aspetti della vita andranno a collocarsi sotto il segno della lotta religiosa ed esprimeranno principi religiosi estremi”, come ebbe a scrivere.
Tutto ciò contemplando, affascinata e ormai sedotta, l’Europa d’Occidente non riesce a riconoscere il “principio religioso estremo” che anima l’intero discorso economico contemporaneo, nella sua declinazione – sostanzialmente totalitaria – che ha preso il nome di capitalismo. Tantomeno riesce a individuare nel suo dipanarsi la fisionomia dell’Impero di questo Medioevo. Discetta al contrario di astrazioni giuridiche e principi altrettanto astratti che però hanno un concretissimo costo che le esauste casse pubbliche non possono più sopportare.
Eppure basterebbe alzare lo sguardo, oppure scrutare la profondità degli oceani.
Sopra le nostre teste di europei stanchi e vecchi viaggiano ogni giorno oltre 12 trilioni di dollari di investimenti di portafoglio dell’Impero, ossia le armate della contemporanea forma del dominio, che le capitali imperiali amministrano con cerimoniosa compostezza, garantendosi con tale sfoggio di potenza rispetto reverente e timoroso.
Sotto i nostri piedi intanto decine di migliaia di chilometri di cavi sottomarini, gestiti e posseduti da sconosciute compagnie di telecomunicazioni, intrecciano i binari lungo i quali i treni carichi d’oro dell’Impero viaggiano alla velocità del pensiero: smaterializzati.
Le capitali dell’Impero, dunque. Una a Occidente e una a Oriente, come all’epoca romana.
A Occidente New York, ovviamente, con la sua succursale europea di Londra. Mentre a Oriente, chi meglio di Hong Kong? La nuova Costantinopoli cinese, già provincia dell’ex impero britannico.
Se uniamo le tre capitali arriviamo a conoscere la vera capitale dell’impero: Nylonkong.
Tale fortunata riduzione giornalista si deve a “Time”, che nel 2008 notò il viluppo di legami, culturali e storici prima ancora che finanziari, che legano le tre capitali dell’Impero in una sola. Città sicuramente virtuale, nel senso che oggi la tecnologia dà a questa parola, e quindi tutt’altro che immaginaria. Al contrario: terribilmente concreta. Con la sua teoria di grattacieli dorati e di vicoli maleodoranti miseria, di Pil pro capite fra i più elevati al mondo grazie al settore finanziario, la città virtuale appartiene a una geografia che poco o nulla ha a che vedere con quella del planisfero, ma semmai con quella del potere.
L’Europa, divisa nelle due anime d’Oriente e d’Occidente, è terra di passaggio e di attraversamento delle correnti imperiali e quindi non vi resiste. Troppo forte è la seduzione religiosa della ricchezza, che ha fatto strame della natura europea, che fu spirituale. Ma ancor più forte è l’educazione sentimentale che gli Stati Uniti hanno scritto e narrato al resto del mondo, celando il loro costante ricorrere a un’economia di guerra col travestimento del diritto alla felicità.
Tale narrazione, che è il vero collante dell’Impero, e della sua terra di mezzo – l’Europa – omette di approfondire la sua costituente, perdendosi infine nella notte dei tempi l’origine dell’agire economico contemporaneo, perciò ignoto a moltissimi, se non a tutti.
O peggio: tutti conoscono il New Deal di Roosevelt, ma pochi ricordano più dell’aneddotica. Il famoso scavar le buche per riempirle, volgarizzazione della spesa pubblica in deficit per creare occupazione che ha segnato la storia economica degli ultimi 80 anni, al lordo della sue semplificazioni. Concetto facile, che tutti potevano capire e i politici amministrare, e quindi sommamente retorico.
Quel che si dovrebbe sapere, o ricordare, del New Deal, tuttavia è altro: che fu economia di guerra, appunto, e che non è mai terminato.
Molti si stupiranno nello scoprire che pressoché tutto ciò di cui parliamo, quando parliamo di economia, è invenzione angloamericana.
Il Pil, ad esempio, quel Prodotto interno lordo che abbiamo messo a denominatore comune di ogni nostra fortuna (o disgrazia). Inventato negli anni ’30 da Kuznets, un oggi dimenticato economista ebreo russo emigrato in giovane età negli Stati Uniti e poi reclutato dal dipartimento di commercio, alla disperata ricerca di un indicatore onnicomprensivo che sostanziasse gli sforzi di Roosevelt in visibili effetti delle sue politiche keynesiane. E quindi inserire la spesa pubblica nel conteggio del prodotto, che fu la trovata geniale che disegnò le sorti dell’economia a venire.
E più tardi, il Pil, adottato da economisti inglesi, ormai nel dopoguerra, e da lì fatalmente, in tutti i manuali di statistica economica che le organizzazioni internazionali hanno imposto agli stati, peraltro ben lieti di adottarle.
Oppure: lo shadow banking: quanto se ne parla oggi, come se fosse l’ennesima deriva della creatività distruttrice dei nostri banchieri. Anche qui: una semplice ricognizione nella storia basterebbe a scoprire che anche questa, come il Pil, è uno degli stratagemmi meglio riusciti del New Deal per creare un mercato che ancora non c’era negli Usa: quello immobiliare. Dare credito alle famiglie americane per inseguire il sogno americano, che come ricorda Frank Capra, prevede anche una piccola ma confortevole casa di proprietà. Erano gli anni Trenta, negli Usa, e già andava forte il Monopoli, gioco da tavolo che addestrerà milioni di cercatori d’oro alla ricerca della fortuna nell’uso sapiente del mattone e della rendita.
In tal senso creare strumenti di cartolarizzazione del credito, quelli che i tecnicismi oggi chiamano MBS o ABS, con la garanzia di un’agenzia pubblica (Fannie Mae o Freddie Mac) e poi fare circolare questa carta scambiandola con mattone.
Tutto ciò che nel 2008 ha condotto alla crisi dei subprime affonda le sue radici in quegli anni. Che certo non sono trascorsi invano. Nel frattempo questa finanza è diventata patrimonio comune. Lo shadow banking, che di tali pratiche si nutre, ormai ha trovato casa pure in Cina, e segnatamente a Hong Kong, dove si stima alligni almeno il 20% del settore bancario ombra cinese, preoccupando non poco il Fondo Monetario internazionale, che ha dedicato alla questione anche un pregevole capitolo nel suo ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria globale.
Non a caso. L’ombra delle banche cinesi, stanziate nella Costantinopoli d’Oriente, è un preoccupante veicolo di potenziale infezione per il corpo ancora convalescente del sistema finanziario internazionale.
Ma più di ogni altra cosa, l’egemonia americana trova nella sua Banca centrale lo strumento principe. La cornucopia alla quale attingono senza sosta gli oltre 8.000 miliardi di investimenti di portafoglio che il Ragno americano tesse con prodiga generosità alle sue province. Miliardi che erano poco più di 2.000 nel 2001. La stessa Fed che nel 1917, quando l’America decise la sua entrata in guerra, ideò, creandolo, il mercato dei repo, che oggi è lo strumento principe della politica monetaria di tutte le banche centrali.
Ma moltiplicare la ricchezza finanziaria per quattro volte in un decennio, senza un corrispondente aumento del prodotto, è stato il capolavoro recente della capitale occidentale dell’Impero. Lo strumento attraverso il quale si assicura fedeltà e rispetto mutuando i cugini inglesi, che hanno alle spalle una robusta tradizione di finanza imperiale fondata prima sulle rapine dei corsari e poi sulle rendite della City. E ormai lo fanno anche i cinesi, che saranno pure comunisti, ma hanno interiorizzato la lezione principale dell’agire contemporaneo: la potenza dell’economia. Innanzitutto quale veicolo per la conquista della terra proibita: quella dell’immaginazione.
La forza di Nylonkong è la seduzione, d’altronde. Non la paura della forza, ma il desiderio della debolezza. L’esser ignavi ricettori di stimoli indotti dai potenti mercati, grazie allo strumento della pubblicità, e quindi monadi sterili nell’utero confortevole della rete. Saziando ogni appetito, con la stimolazione parossistica del desiderio, Nylonkong onnubila le coscienze e conquista il dominio, rimanendo persino invisibile. Non servono armate o gendarmi. Basta erogare denaro. E a questa pratica il fiat money della banca centrale giova egregiamente.
Cosa può l’Europa di fronte a questo spiegamento di denaro? Poco o nulla. Le sue popolazioni, cresciute a pane e diritti, faranno volentieri a meno dei secondi per garantirsi il primo. Senza che nessuno, peraltro, abbia spirito a sufficienza per rifiutare la promessa di felicità in terra, che l’Impero propina ad ogni seguace, in barba ad ogni autentica economia, che dovrebbe esser sobria e consapevole della finitezza delle risorse, a cominciare da quella più preziosa: il tempo.
Rimangono alcune battaglie di retrovia, confinate però in un sapere specialistico assai astruso e lontano dai cuori delle popolazioni.
Il luogo di questa debole forma di resistenza, per uno strano accanirsi della storia, è ancora una volta la Germania. La banca centrale tedesca sta conducendo una battaglia solitaria per affermare nella coscienza corrotta dei finanzieri di professione un principio ormai dimenticato: quello della responsabilità.
Un esempio: la battaglia per il bail in, ossia la fine della socializzazione delle perdite finanziarie e della privatizzazione dei guadagni, che così tante fortune di carta ha generato negli ultimi decenni è una di queste. I banchieri tedeschi dicono, e ci ricordano, che bisogna essere responsabili delle nostre azioni. E che quindi sia giusto che a pagare il fallimento di una banca non siano gli stati, ossia tutti i cittadini, ma chi quella banca la possiede o l’ha finanziata.
I malevoli osservano che la battaglia tedesca nasconde personalissimi interessi di bottega, e forse è così. E d’altronde altri atti della Germania, che non sfugge alla tela del ragno americano essendo a sua volta destinataria di centinaia di miliardi l’anno di investimenti di portafoglio in dollari, non testimoniano in alcun modo che tali affermazioni di responsabilità sostanzino il tentativo di affermare una diversa Weltanschauung. Piuttosto un timido tentativo di frenare la corsa dell’Impero al solo fine di farlo durare di più. Una raffinata forma di collaborazionismo.
Se servissero esempi, basti notare l’acquiescenza delle élites tedesche al progetto di area di scambio con gli Usa. Oppure la costante opera di seduzione verso la Cina, ossia il lato orientale dell’Impero, essendo fra le altre cose divenuta Francoforte la seconda piazza dopo Londra dove circolano gi ambiti renminbi.
La Germania, perciò, poco può o vuole fare.
Quale sarà, dunque, l’altro “principio religioso estremo”, per concludere con le parole profetiche di Berdjaev che andrà a contrapporsi a quello di Nylonkong?
Nessuno conosce la risposta, ma si può tentare una visione.
Il denaro, con la sua ansia di calcolo a interesse composto, parla esclusivamente alla testa. A sentire gli antichi rimangono altri due luoghi, nei quali si annida la vita: il cuore e lo stomaco.
Non abbiamo molta scelta quindi.
L’altro principio religioso estremo sarà l’amore. Quindi una forma di economia cooperativa che riconduca il discorso economico alle sue origini, anteriori a quelle che Polanyi chiamò la Grande Trasformazione.
O la fame.
Ossia la guerra.
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