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L’ideologia dello sviluppo: pericolosità di un mito duro a morire

Creato il 23 settembre 2013 da Sviluppofelice @sviluppofelice

di Cosimo Quarta

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I recenti studi sulle crisi economiche degli ultimi decenni, da un lato, individuano e analizzano le diverse cause mediate e immediate delle crisi, dall’altro, raramente le affrontano in termini di «sistema», per risolvere alle radici il problema.

Tra le cause generali, cioè sistemiche, qui mi preme affrontare l’ideologia dello sviluppo. L’attuale modello di sviluppo si è trasformato in ideologia, poiché implica un continuo aumento dei consumi. Infatti in ogni periodo di crisi, tra le misure adottate dai governi troviamo, in primis, quelle per stimolare i consumi. Ma un sistema economico che per non entrare in crisi ha bisogno di produrre e di consumare sempre di più è destinato, prima o poi, al fallimento. A mettere in evidenza i limiti di questo modello economico non è più soltanto il «vecchio» Marx, ma anche non pochi studiosi del nostro tempo.

Com’è noto, nel 1972 il primo rapporto al Club di Roma, di un gruppo del Mit, poneva l’accento sui limiti dello sviluppo. Fin d’allora si era compreso che i problemi dell’umanità oggi non possono essere risolti senza considerare l’intera realtà planetaria come una cosmopoli, ossia come un unico, grande e complesso sistema: «Nessun paese, neppure il più grande può sperare di risolvere i suoi propri problemi, se non si risolvono prima quelli che minacciano il sistema nel suo complesso». Gli studiosi del Mit adottarono il metodo della dinamica dei sistemi per chiarire l’interdipendenza di cinque fattori ritenuti particolarmente critici, come l’incremento demografico, la produzione di alimenti, lo sviluppo industriale, l’esaurimento delle risorse naturali e il dissesto ambientale. Essi conclusero che occorre smettere di considerare «lo sviluppo materiale come scopo principale» dell’attività economica, altrimenti l’umanità sarà costretta a «scontrarsi con i limiti materiali di tale processo», andando incontro a conseguenze catastrofiche. Per loro il problema dello sviluppo andava affrontato «in modo globale, in particolare considerando il problema del rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive». Infatti «entrambi i termini dell’equazione uomo-ambiente sembrano tendere verso un pericoloso peggioramento».

La pericolosità del nesso strettissimo che lega il paradigma dello sviluppo alla «società dei consumi» non era sfuggito ad Hannah Arendt, per la quale i problemi del nostro tempo risalgono a due trasformazioni socio-antropologiche tipicamente moderne: la prima è quella scaturita dall’umanesimo, grazie al quale l’uomo, prendendo coscienza della sua «dignità» e delle sue straordinarie capacità realizzatrici, si trasformò ben presto in homo faber; la seconda è dovuta all’avvento della società industriale, che ha trasformato l’homo faber in animal laborans, poiché nella società capitalistica, dominata dalle macchine, «si lavora per consumare e si consuma per lavorare». E questo spiega perché oggi il licenziamento e la disoccupazione sono sentiti dall’homo laborans come uno scacco, quasi una vergogna. Essi costituiscono spesso l’anticamera della miseria. Ma il paradigma dello sviluppo ha prodotto un’ulteriore trasformazione antropologica, ossia il passaggio dall’«animal laborans» a quello che Bauman ha chiamato homo consumens, cioè un tipo d’uomo la cui esistenza e dignità dipendono dalla capacità di consumare.

L’evo moderno, che si era aperto con l’orgogliosa rivendicazione cartesiana dei diritti della ragione e con l’esaltazione baconiana dell’incessante sviluppo scientifico-tecnologico, ci ha condotto, con la postmodernità, ad un tipo d’uomo che ha sostituito il primato del pensiero con quello del consumo. Si è passati cioè dalla fierezza d’animo implicita nel «cogito ergo sum» all’insignificanza e povertà esistenziale racchiusa nell’odierna e diffusa prassi del «consumo dunque sono». Se con Cartesio l’essere era stato fagocitato dal pensiero, ora il capitalismo, ossia l’illimite del profitto, servendosi dell’illimite del sapere tecnico-scientifico – sostenuto e coadiuvato dalla ragione strumentale – e dall’illimite del desiderio – stimolato incessantemente da una pubblicità martellante, – ha fagocitato non solo l’essere, ma anche il pensiero, trasformando l’uomo in consumatore.

Occorre uscire dalla trappola dell’ideologia dello sviluppo e, quindi, del consumismo, in cui l’umanità (almeno quella occidentale) è stata sospinta. Oggi i cittadini, se lo vogliono, hanno in mano le armi per porre fine a questo modello economico che sta portando la specie umana e l’intero pianeta al collasso. E fa ben sperare che, in questi ultimi anni, voci di tradizioni culturali diverse si siano levate per dire «basta» al consumismo, agli sprechi quotidiani – pubblici e privati – esortando tutti a uno stile di vita all’insegna della sobrietà. Si pensi alle proposte di Morin per uscire da quella che egli definisce la «concezione barbara dello sviluppo», o agli interventi di Latouche ed altri autori, sulla «decrescita», oppure ai ripetuti interventi di Papa Francesco sulla vita sobria, o, ancora, al «Manifesto del qubismo», ossia del «quanto basta», di Guido Moltedo, o, infine, al «consumo critico e consapevole» proposto da Altroconsumo Festival, svoltosi a Ferrara dal 7 al 9 giugno 2013.

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