All’inizio degli anni Sessanta, mentre da un capo all’altro del mondo una generazione di donne sveglie si prepara a fare i conti con un ordine simbolico che non ammette espressioni adeguate alla loro esperienza, Anna Maria Ortese, scrittrice arguta e ineguagliabile, escogita una creatura mezzo donna e mezzo bestia per nominare la trascendenza femminile. E scatena sostantivi, aggettivi, verbi. Ne inventa, perfino.
Poco dopo l’inizio del racconto, Ortese descrive l’episodio più significativo. Mentre due uomini ispirati discutono intorno alla vecchia faccenda del bene e del male, la balorda creatura, mezzo donna e mezzo rettile, si annoia rannicchiata sotto un tavolo. Niente questioni metafisiche, per lei, solo una manciata di piccole pietre e avanzi di minestra scipita.
Quanta fame di cibo buono. Quanta fame di parole avvincenti.
… e ciò non per calcolo, sibbene per quel pudore intensissimo che gli spiriti elevati provano davanti a qualsiasi ammiccamento dell’utile. Anna Maria Ortese, L’Iguana, Adelphi 1997 p.37