Priamo, Ettore, Andromaca, Enea, nella loro patria e con le loro fattezze: che non dovevano essere molto diverse da quelle dei Turchi di oggi. Qualche anno fa, un archeologo statunitense ha scritto una storia dell’Iliade tenendo conto delle recenti scoperte archeologiche e di esegesi comparata, che hanno sempre più posizionato Troia nella sfera ittita-luwita (e a proposito, c’è un dibattito tra storici su quale lingua parlassero i Troiani; dibattito scaturito dalla scoperta, nel 1995, di un’iscrizione in lingua luwita, datata al 1275 a.C.) Il libro in questione – tradotto in italiano: Barry Strauss, La guerra di Troia (Laterza, 2007 e poi 2010) – si legge gradevolmente e scorrevolmente, mescolando la narrazione romanzesca alle più recenti scoperte archeologiche, rendendo anche più credibile il contesto delle spedizioni e insediamenti micenei sulla sponda anatolica dell’Egeo. Infine, questa narrazione/studio tiene conto di ciò che viene detto da Omero nell’Iliade e nei poemi attribuiti ai suoi discepoli come l’Ilioupersis: Enea fuggito da Troia in fiamme con parte della popolazione non prende affatto la via del mare, ma si rifugia sul natio Monte Ida (Kazdaği 1774 metri), nell’entroterra del Golfo di Adramitto/Edremit; e da lì, passata la bufera, torna a Troia e la ricostruisce, diventandone il nuovo sovrano. Insomma una splendida epopea che, girata in loco e da locali, porterebbe un notevole contributo alla conoscenza di questa realtà così legata alle nostre radici, oltre che a dare una qualche spallata all’orientofobia dilagante, facendo comprendere chi erano i Troiani e da dove viene una parte rilevante delle radici culturali dell’Occidente.
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