L’impegno di Washington nell’Oceano Pacifico

Creato il 21 maggio 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

Nell’ultimo periodo gli Stati Uniti hanno decisamente rivolto la loro attenzione in direzione dell’Oceano Pacifico. Nonostante il Dipartimento di Stato sostenga che ciò è dovuto alla crescente importanza economica della regione, è evidente che l’interesse degli USA verso l’Asia Pacifica non è altro che una copertura per i piani di creazione del “nuovo ordine mondiale”. Zbignew Brzezinski ha proposto agli Stati Uniti di diventare “l’ago della bilancia regionale” in Asia, svolgendo un ruolo di mediazione nella soluzione di controversie ed eliminando lo sbilanciamento militare. In altre parole gli USA, nonostante non siano una potenza asiatica, vogliono disarmare la regione e allo stesso tempo rafforzare la loro presenza nella zona.

La Cina è uno degli obiettivi evidenti in questo gioco, e gli USA, sfruttando qualunque occasione, tentano di riorganizzare le relazioni con tutti i protagonisti della zona dell’Asia orientale, dalla Malesia all’Australia. “L’Australia accoglierà 4000 militari della Marina USA”, scrive il Businessinsider, “mentre nelle Filippine militari americani addestreranno i loro colleghi. Ad oggi le truppe USA si trovano in questo Paese solo temporaneamente, su richiesta del governo, ma si discute la possibilità di creare una base congiunta. Inoltre, visto il pericolo di azioni da parte di cellule locali di Al-Qaeda nel sud del Paese, l’aeronautica filippina riceve aiuti tecnici dagli Stati Uniti. Sull’isola di Guam si pianifica la dislocazione di 4700 soldati di marina statunitensi. Un numero simile di soldati sull’isola non era presente dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.

Peraltro gli USA sfruttano abilmente gli attriti e i contrasti tra le nazioni della regione. Ad esempio, la presenza di spazi marittimi contesi nel Mar Cinese Meridionale ha già portato al fatto che un’intera coalizione di Stati, dal Vietnam alle Filippine, può rivelarsi antagonista della Cina. La Cina, in verità, ha raggiunto degli accordi con il Vietnam su una serie di problemi. Nell’ottobre del 2011 entrambi gli Stati hanno creato un gruppo di lavoro per la demarcazione e la divisione del Golfo del Tonchino vicino alle Isole Paracel. Ciononostante, a marzo di quest’anno, i Cinesi hanno di nuovo fermato due pescherecci vietnamiti. A questo riguardo Hanoi ha presentato una protesta a Pechino.

Il 10 aprile di quest’anno è avvenuto l’ennesimo incidente tra la Cina e le Filippine, quando una nave militare cinese è entrata nelle acque territoriali filippine per impedire il sequestro di un peschereccio cinese. Questo ha portato a un’escalation di tensione tra i due Paesi: la Cina ha inviato nella zona delle motovedette di pattuglia, mentre le Filippine hanno inviato una nave della guardia costiera. Il 25 aprile si sono svolte le manovre congiunte americano-filippine per l’occupazione simulata di un’isola nel Mar Cinese Meridionale. Per rendere l’addestramento il più verosimile possibile, le manovre sono state svolte sull’isola di Palavan, che confina con la zona di tensione tra Filippine e Cina. Stati Uniti e Filippine fanno appello al fondamento giuridico di questo tipo di manovre: nel 1951 i due Paesi hanno sottoscritto un accordo di aiuto reciproco nell’ambito della difesa contro aggressioni esterne o in tempo di guerra.

È importante sottolineare anche il fatto che l’ultimo summit dell’ASEAN, che si è svolto nella capitale della Cambogia Phnom Penh a inizio aprile non ha portato a nessun risultato per quanto riguarda le questioni relative ai territori contesi nel Mar Cinese Meridionale. Perciò gli altri Paesi che hanno rivendicazioni su questi tratti di mare non hanno mezzi diplomatici per una rapida risoluzione del problema.

Bisogna dire che le pretese della Cina sono del tutto fondate, dal momento che è impossibile negare gli sforzi degli USA per la militarizzazione della regione. Al momento gli Stati Uniti stanno operando una modernizzazione delle piste di atterraggio sulle Isole Cocos, tra l’Australia e lo Sri Lanka. Ciò significa che si sta preparando una testa di ponte per un eventuale attacco futuro. Inoltre, una nuova base nelle Filippine, secondo il progetto degli strateghi americani, potrebbe assicurare una serie di vantaggi, il principale dei quali sarebbe ostacolare i tentativi della marina militare cinese di allargare il perimetro di difesa. Ciò, inoltre, permetterà di organizzare una reazione militare veloce e pluridirezionale in caso di conflitto con Taiwan, mentre la presenza dei militari americani farà da contrappeso alle azioni della Cina verso gli altri Paesi che hanno sbocchi sul Mar Cinese Meridionale, tra cui il Vietnam.

Una delle basi più favorevoli per la futura presenza americana nella regione è l’Australia, dove già da tempo i conservatori locali discutono il tema della “minaccia cinese”. Nella città australiana di Darwin, dove si trova una base, sono arrivati i primi reparti della marina militare USA. Ufficialmente non è stata annunciata la creazione di una nuova base americana, ma i leader di entrambe le nazioni hanno confermato che verrà stabilità una cooperazione costante. Il redattore del The Atlantic Max Fisher nell’articolo 5 Lessons of U.S. Plan for a Permanent Military Presence in Australia indica le seguenti ragioni della nuova strategia di Washington:

  1. la necessità di fermare la Cina; l’invio a Darwin di militari allargherà le possibilità degli USA nell’Oceano Pacifico, e, cosa più importante, assicurerà la presenza militare statunitense nella zona occidentale del Pacifico;
  2. agevolazione del processo di spostamento degli Stati Uniti dal Vicino Oriente e dall’Asia Centrale, zone permeate di sentimenti antiamericani, verso l’Estremo Oriente;
  3. lo sforzo di Obama di uscire dall’Afghanistan;
  4. il desiderio di compensare gli attriti legati alla base americana in Giappone: la base a Darwin servirà da “area di riserva”, che permetterà di conservare le priorità nel mantenimento della sicurezza regionale;
  5. la possibilità di rendere l’Australia un nuovo partner degli Stati Uniti (sul modello dell’Arabia Saudita), tenendo in considerazione il sostegno dell’Australia in tutte le guerre condotte dagli Stati Uniti, a cominciare dal Vietnam.

 
Taiwan e Corea del Sud tradizionalmente seguono e appoggiano la politica americana. George Friedman, analizzando la situazione in Corea del Sud, motiva la presenza di militari americani in questo Paese con la minaccia del vicino settentrionale, la Corea del Nord. Friedman scrive che la Cina rappresenta una buona copertura per Pyongyang, e la loro collaborazione è vantaggiosa per entrambi i Paesi. Pechino usa la Corea del Nord come zona cuscinetto, mentre quest’ultima in molte situazioni, compreso il programma atomico, si rivolge alla Cina per ottenere aiuto diplomatico. Ma nel complesso Pyongyang ha un atteggiamento prudente verso la Corea del Sud, e la presenza di truppe americane nel sud della penisola coreana, secondo il parere di Friedman, non è assolutamente indispensabile.

Uno dei Paesi chiave per la penetrazione degli Stati Uniti nell’Asia Pacifica è la Birmania. È sufficiente guardare una carta geografica affinché tutto diventi chiaro. Nonostante la Birmania non si affacci sull’Oceano Pacifico, la sua costa estesa lungo il Golfo del Bengala e il confine comune con la Cina permettono di considerare questo Paese come una testa di ponte logistica per l’espansione americana verso la Cina. Già ai tempi della Seconda Guerra Mondiale gli USA avevano tentato di costruire la cosiddetta “strada di Birmania” per raggiungere la provincia dello Yunnan e rifornire le truppe di Chiang Kai-Shek. A causa delle difficoltà legate alla conformazione del territorio, ciò all’epoca non riuscì, mentre gli odierni mezzi tecnico-militari permettono di ottenere risultati di gran lunga superiori. E non è assolutamente indispensabile ricorrere all’aggressione diretta. La dislocazione in Birmania da parte degli Americani di sistemi radar, di basi missilistiche oppure di basi militari con gruppi d’assalto aereo bloccheranno la Cina in ogni caso.

Gli Stati Uniti inoltre “progettano di aprire una strada per le organizzazioni non governative, affinché queste possano allargare la loro attività in Birmania”, come aveva dichiarato in precedenza George Soros riguardo all’intenzione di stabilire in Birmania la sua missione continua che “permetterà di creare le condizioni per il passaggio a una società aperta”. L’azione combinata di Wall Street, della Casa Bianca e delle multinazionali americane, in questo modo, tra non molto tempo potrà sottomettere questo Paese al controllo di Washington.

Accanto alla “democratizzazione”, altri strumenti di pressione sul governo della Birmania sono i problemi legati alla sicurezza (l’attenzione si concentra sugli attacchi di ribelli di varie minoranze etniche, che minacciano di destabilizzare i confini con Thailandia, India e Cina), e anche la sospetta importazione di tecnologie nucleari dalla Corea del Nord. Inoltre, una delle richieste degli USA al governo della Birmania è la cessazione della cooperazione militare con la Cina.

Gli analisti americani evidenziano l’importanza della Birmania per gli Stati Uniti sia per la presenza di riserve petrolifere, di gas e di altre risorse naturali, sia come potenziale sbocco commerciale. Al momento i settori più redditizi del Paese, dalla lavorazione del legname a quella delle pietre preziose, si trovano sotto il controllo di una giunta militare, ma lo sviluppo della situazione può portare a un ingresso attivo nel Paese di investitori esterni e alla ridistribuzione delle sfere di influenza. Sotto la bandiera della democratizzazione, delle riforme del mercato e delle promesse di miglioramenti di ogni genere, i neoliberali possono privatizzare le risorse e prendere sotto il proprio controllo tutto il mercato estero della nazione. Peraltro la Birmania è anche il leader mondiale per la produzione del riso. Considerata la minaccia della carestia pronosticata dall’ONU, questo Paese diventa quindi una preda invitante. Inoltre, in un’ottica più ampia, la presenza di confini con India, Bangladesh, Thailandia e Laos può rendere la Birmania la principale fonte di “democratizzazione” di tutta l’Asia Sud-Orientale, come ha da poco dichiarato al riguardo Robert Kaplan sul sito Stratfor.

D’altra parte, sia la Cina che la Russia mostrano interesse verso questa regione. Le loro manovre di marina militare congiunte, denominate “Cooperazione marina 2012”, che si sono svolte tra il 24 e il 29 aprile nel Mar Cinese Meridionale, sono capitate assolutamente a proposito. Washington ancora non ha un’idea chiara riguardo ai piani futuri della collaborazione russo-cinese, e inoltre gli Americani sono disorientati riguardo ai buoni rapporti tra Vietnam e Russia, e in particolare riguardo al recente accordo tra la compagnia petrolifera Vietnamita PetroVietnam e la Gazprom per lo sfruttamento congiunto di due giacimenti nella zona contesa del Mar Cinese Meridionale. Il politologo Michael Oslin cita con preoccupazione i suoi colleghi americani: “Cos’è questo, un tentativo di spaventare Seoul e Tokyo? L’apertura di un nuovo fronte nell’opposizione tra Stati autoritari e democratici nella zona dell’Oceano Pacifico? La pretesa di Cina e Russia di avere il monopolio del dominio della regione, che permetterà loro di bloccare le comunicazioni marittime di tutte le altre potenze? E se invece questa è una misura preventiva, di cosa hanno paura Pechino e Mosca? Quali minacce vorrebbero prevenire?”

Come possiamo vedere, una dimostrazione di forza occasionale è utile, ma una strategia elaborata in prospettiva è preferibile.

(Traduzione dal russo di Roberto Ricci e Ihor Nabokov)


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