L’IMPERATORE DI ROMA (1987) di Nico D’Alessandria

Creato il 10 aprile 2011 da Close2me

Seimila metri di pellicola economica di produzione tedesca, un fotografia dal bianco e nero essenziale, un unico protagonista ed un difficile lavoro di riprese, sonorizzazione e montaggio svoltosi nell’arco temporale di ben cinque anni. Questo (e molto di più) è L’imperatore di Roma, esordio neorealista punk di Nico D’Alessandria.
“Ispirato ad Accattone di Pier Paolo Pasolini, L’imperatore di Roma descrive in bianco e nero alcune giornate-tipo di un tossicodipendente romano di nome Gerry (interpretato da Gerardo Sperandini) dedito all’accattonaggio e all’uso di droghe”
Quando, molto tempo fa, indipendente era sinonimo di tante idee pochi mezzi e coraggio da vendere, il panorama cinematografico italiano conobbe casi filmici talmente originali da autoproclamarsi unici nell’immediato, tanto era lo spirito “di rottura” che li contraddistinse.
Insieme al più noto Amore tossico di Caligari e Bambulé di Modugno, una finestra aperta sul disagio giovanile capitolino, che completa un in sostanza trittico anomalo e sbilenco, dove ogni titolo condivide con gli altri unicamente alcune tematiche ed il gusto visivo per una Roma misconosciuta, lontana da quella delle cartoline amata dai turisti.
Gerry, di cui possiamo solo immaginare l’assoluta imprevedibilità (e di conseguenza incontrollabilità) che lo contraddistinse durante la lavorazione, si fa al contempo nucleo narrativo ed effettivo osservatore del mondo che lo circonda. Non siamo complici né tantomeno giudici delle sue azioni, rapiti solo dal suo vagabondare disincantato ed incessante, pregno di una libertà che evoca quasi invidia. Non ci interessa che talvolta la gente coinvolta nell’impervio lavoro di riprese guardi in macchina: solo pensare che D’Alessandria sia riuscito a cogliere almeno un po’ della cruda dolcezza del protagonista ci emoziona, e travolge. Perché L’imperatore di Roma non racconta ma testimonia la poesia che solo la cornice della realtà può vantare. Un viaggio ai margini delle grandi realtà cittadine che abilmente le contemporanee TV commerciali, durante la loro incessante escalation, si accingevano a seppellire come la peggiore delle vergogne.
Definirla quindi un’opera magnifica sarebbe riduttivo, meglio ricoscerle una bellezza ed una freschezza indispensabili, pressocchè vitali.


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