L’importante è partecipare, ma solo se si vince

Creato il 23 marzo 2014 da Calcioromantico @CalcioRomantico

Agiterò il mio dito mignolo e Tito cesserà di esistere
Iosif Stalin

Sfilata a Belgrado con i ritratti di Stalin e Tito

Al termine della seconda guerra mondiale, il grande successo sovietico a livello di politica estera fu la nascita di un’Europa dell’est comunista, fondamentale scudo militare e ideologico contro il nuovo nemico, ossia l’Occidente capitalista. Nei casi di Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Polonia, paesi in cui peraltro già stanziava l’Armata Rossa durante il periodo bellico, l’intervento di Stalin fu decisivo – con modalità diverse e differenti gradi di brutalità – nell’instaurazione di regimi fedeli a Mosca. Un altro stato (in realtà due, considerando l’Albania) invece, divenne comunista con i propri mezzi, grazie all’impulso della resistenza contro il nazi-fascismo: era la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia guidata da Josip Broz detto Tito, leader inizialmente molto ben visto da Stalin, salvo poi essere “scomunicato” a causa della sua reticenza nel forgiare una Jugoslavia a immagine e somiglianza sovietica. La rottura definitiva tra i due avvenne a causa del Cominform, organizzazione creata nel 1947 (in risposta quindi al piano Marshall) allo scopo di riorganizzare la gestione delle “democrazie popolari” dell’est Europa, vincolandole ancora di più alla Madre Russia. Paradossalmente la prima sede del Cominform fu proprio Belgrado, ma l’idillio durò solo un anno, dopo cui iniziò una pericolosa escalation di tensione. In realtà Tito era sinceramente stalinista, almeno all’inizio, ma non vedeva di buon occhio le ingerenze sovietiche, o meglio i membri della polizia segreta russa infiltrati nel partito comunista jugoslavo allo scopo di mettere in pratica “ogni capriccio di Mosca”.[1] Il presidente jugoslavo, ad esempio, scrisse a Stalin e Molotov: “studiamo e prendiamo ad esempio il sistema Sovietico, ma stiamo sviluppando il socialismo nel nostro paese in forme in qualche modo differenti.”. Di ben altro spessore le missive di Stalin: “a suo tempo anche Trockij ha reso dei servizi al movimento rivoluzionario… Pensiamo che la carriera politica di Trockij sia abbastanza istruttiva”. Insomma, una volta constatata l’impossibilità di una “riabilitazione” politica, Stalin non solo cercò di organizzare a Tito un attentato, ma contemplò addirittura una guerra contro la Jugoslavia, per poi tornare sui suoi passi grazie all’intervento dei funzionari militari che lo dissuasero.

La volontà di “esportazione” del comunismo (o meglio una visione di esso proiettata al di fuori dei confini nazionali), però, strideva con un isolazionismo sportivo, un po’ volontario un po’ forzato, a causa del quale ad esempio la nazionale sovietica di calcio aveva all’attivo solo due partite ufficiali, disputate tra il 1924 e il 1925 contro la Turchia, unica compagine disposta a sfidare la diffida della FIFA prevista per chi avrebbe giocato contro l’URSS. Però l’ammissione al CIO, avvenuta nel 1950, e il fatto che il calcio era divenuto un fenomeno dal grande potenziale propagandistico, convinsero le alte sfere a far partecipare la rappresentativa con l’inconfondibile scritta CCCP sulle magliette alle Olimpiadi di Helsinki del 1952. La spedizione olimpica constava in tutto di ben 295 atleti di cui 40 donne (fonte: Gazzetta dello Sport), addirittura cinque in più di quella statunitense. I giochi, del resto, potevano e dovevano essere sfruttati per dimostrare la superiorità del modello socialista sovietico anche ai paesi “amici”, non solo all’Occidente in pieno livore maccartista. Gli atleti selezionati, quindi, se da un lato avevano ragionevolmente voglia di confrontarsi con il resto del mondo, dall’altro dovevano fare i conti con tutto quello che c’era dietro. Parliamo soprattutto della lapidaria visione staliniana del concetto di confronto, semplificato ulteriormente nel caso del calcio, visto il seguito che aveva anche in URSS: se si partecipa, si deve essere sicuri di vincere, altrimenti si resta a casa. A tal proposito, basti pensare che Nikolaj Romanov, il presidente del Comitato Pansovietico per le questioni della Cultura Fisica e dello Sport, per ottenere il permesso di far partecipare la nazionale di calcio a una competizione internazionale così importante, dovette inviare a Stalin un documento in cui si garantiva la vittoria.

Dato il clima non proprio rilassato, quando Boris Arkad’ev, all’epoca allenatore del CDSA Mosca (la squadra dell’esercito, futura CSKA), fu nominato ct nel marzo del 1952, egli capì subito che a fronte di un pur grande onore doveva affrontare un enorme onere. Perché Arkad’ev si trovò non solo a doversi reinventare una nazionale di calcio di fatto inesistente dall’anteguerra, ma anche a doverla portare alla vittoria nella competizione sportiva più importante di tutte.

Boris Arkad’ev

Il neo ct non volle giustamente partire totalmente da zero, per cui decise di comporre una squadra attorno a un blocco della sua CDSA (anche se per volere di esercito e partito dovette provare circa sessanta candidati alla spedizione olimpica), e cercò di disputare il maggior numero di amichevoli possibili. Durante queste partite la nazionale era “travestita”, come scrive Mario Alessandro Curletto[2], da rappresentativa di Mosca, e affrontò due volte la grande Ungheria, pareggiando la prima gara 1-1 e addirittura vincendo per 2-1 la seconda. Risultati promettenti, viste le premesse, ma ciò non riuscì a impedire pressioni politiche su Arkad’ev. In alcuni casi l’allenatore riuscì a spuntarla – come per la convocazione di Vsevolod Bobrov, miglior attaccante sovietico dell’epoca ma attempato e reduce da un infortunio – ma in altri dovette arrendersi, ad esempio sull’essere assistito da Michail Jakušin, l’ex allenatore della Dinamo Mosca definito da Marjiutin (attaccante dello Zenit di Leningrado) “calcisticamente il suo peggior nemico”. Prima di raggiungere la Finlandia, la nazionale sovietica alloggiò qualche giorno a Leningrado. Non è chiaro se lì i giocatori e l’allenatore furono costretti a firmare un documento in cui si garantiva la vittoria, ma di sicuro in ogni caso su di loro pendeva un’enorme spada di Damocle, destinata a diventare sempre più incombente…

Nel turno preliminare[3] il sorteggio volle l’URSS opposta alla Bulgaria e questo accoppiamento, come del resto Romania-Ungheria, fece sollevare dei sospetti sulla volontà di dimezzare le nazionali del blocco socialista, che tra l’altro alloggiavano in un villaggio olimpico a parte. Sta di fatto che le gambe dei sovietici in questa partita erano inchiodate dalla paura di perdere, e i 90 minuti trascorsero a reti inviolate. Accadde tutto nel primo tempo supplementare, quando i bulgari passarono in vantaggio al 95′ grazie a Kolev, e solo un super Bobrov (gol e assist per Trofimov) permise ai russi di ribaltare la situazione e accedere agli ottavi di finale. Ed è lì che la sorte rese la questione davvero delicata: l’avversario dell’Unione Sovietica sarebbe stata l’odiata Jugoslavia, in un incontro che in quel momento, per ovvi motivi, andava ben oltre una mera partita di calcio. I russi intuirono immediatamente che l’esito di quella gara avrebbe potuto condizionare la loro carriera ma anche la loro vita, soprattutto in caso di sconfitta, tanto che qualcuno propose anche di non scendere in campo vista la posta in palio fin troppo alta. Alla fine, però, arrivò dall’alto l’ordine di giocare, ovviamente accompagnato a quello di vincere. La partita era in programma per il 20 luglio a Tampere, città non lontana da Helsinki, e i sovietici si prodigarono per portare almeno duecento persone allo stadio, poiché di sicuro la maggioranza del pubblico avrebbe sostenuto gli avversari vista la ferita ancora aperta della guerra tra URSS e Finlandia, e visto quanto i media occidentali sottolineassero il significato politico dell’incontro.

La nazionale jugoslava nel 1952

Dopo un iniziale equilibrio, la Jugoslavia passò in vantaggio al 29’ con Mitić. Da quel momento i sovietici si fecero prendere dal panico e commisero errori su errori, terminando il primo tempo con un passivo di tre reti a zero, gol di Ognjanov e Zebec. Anche in questo caso non è chiaro cosa successe negli spogliatoi all’intervallo, ma sta di fatto che appena rientrati sul terreno di gioco il risultato divenne subito 4-0, ancora rete di Zebec. Con orgoglio Bobrov siglò il 4-1, ma il quinto gol della Jugoslavia, a firma Bobek, non tardò ad arrivare. Sembrava una débâcle, ma a mezz’ora dalla fine gli slavi, un po’ stanchi e un po’ sicuri di aver già vinto, calarono considerevolmente il ritmo e le speranze sovietiche si riaccesero: al 75’ arrivò il 2-5 di Trofimov, a cui seguirono altri due gol del solito Bobrov, autore di una tripletta. Mancava ormai una manciata di secondi alla fine, quando Petrov siglò l’insperato e incredibile 5-5 dopo cui si arrivò ai supplementari. Ma le due squadre, stremate, non riuscirono a cambiare ulteriormente il risultato.

Non essendo ancora previsti i rigori in casi come questo, era necessario giocare la ripetizione due giorni dopo, sempre nello stadio di Tampere. Se possibile, la pressione per i sovietici divenne ancora più soffocante. Si legge nel citato libro di Curletto che Novosil’cev, all’epoca inviato della Pravda, avrebbe raccontato in seguito: «alla nostra ambasciata arrivò un telegramma firmato I. Stalin, nel quale egli spiegava ai nostri calciatori la portata della responsabilità che incombeva sulle loro spalle. Il compito loro affidato era di natura politica. Nel telegramma si ricordava lo stato delle relazioni tra URSS e Jugoslavia. La partita che li attendeva non rappresentava semplicemente un evento sportivo, ma assumeva il significato di un atto politico dello Stato.». In queste parole è racchiuso tutto quello che c’è da sapere riguardo allo stato d’animo dei giocatori sovietici, che se da un lato si sentivano responsabilizzati e orgogliosi, dall’altro inevitabilmente pensavano alla Siberia. Per quanto riguarda gli avversari, invece, Tito e i suoi non fecero certamente una tale pressione ai giocatori, e infatti la vigilia del match fu vissuta in maniera diametralmente opposta dalle due squadre: se la Jugoslavia riposò, l’Unione Sovietica si allenò in maniera massacrante – scelta controproducente, col senno di poi. Si arrivò così al fatidico 22 luglio e le due nazionali entrarono in campo agguerritissime. Il solito Bobrov portò in vantaggio l’URSS al 6′; dopo questo gol i russi, forse intimoriti e intenzionati a difendere il risicato vantaggio, si chiusero troppo in difesa e la Jugoslavia non solo pareggiò al 19′ con Mitić, ma ribaltò il risultato sette minuti dopo su rigore calciato da Bobek. Il tempo a disposizione era ancora molto, ma i sovietici non riuscirono a reagire, subendo addirittura una terza rete da Čajkovski. Jugoslavia ai quarti, URSS a casa.

Se nelle strade jugoslave si scatenò una grande festa,[4] a Mosca si iniziò a pensare alle conseguenze di quell’onta sportiva (ma non solo), che però inizialmente sembravano non arrivare: per qualche settimana, infatti, tutto sembrava tacere e i calciatori addirittura tornarono a giocare con le rispettive squadre di club, ma un capro espiatorio si doveva trovare. La colpa, infatti, alla fine fu data alla CDSA, come già detto la squadra di club con il blocco più consistente in nazionale (allenatore compreso) che fu improvvisamente smantellata, senza alcun fondamento giuridico e senza alcuna spiegazione da parte della stampa (il Sovetskij Sport la cancellò semplicemente dalla classifica). Ma c’è anche da dire che Berija, capo del KGB e dirigente della Dinamo Mosca, potrebbe aver sfruttato l’occasione per sbarazzarsi di un’acerrima rivale, poco importava che fosse la squadra dell’esercito.[5] Di lì a poco fu ratificato un altro documento -di fatto incoerente rispetto al precedente che addossava tutte le colpe alla CDSA- che si rivolgeva anche a elementi militanti in altre squadre, anch’essi colpevoli di aver arrecato “un serio danno al prestigio dello sport sovietico e dello Stato sovietico”. E l’allenatore Arkad’ev? Dapprima, visto lo smantellamento della sua squadra di club, fu semplicemente licenziato e si trovò ad allenare la Lokomotiv Mosca, ma poi finì anch’egli sul banco degli imputati, nel gennaio del 1953 nell’ambito di una conferenza sul calcio. Per sua fortuna, però, rimase invischiato nella lungaggini giuridiche che generalmente si concludevano con un arresto, ma Stalin morì il 5 marzo dello stesso anno e tutto cambiò, non solo in URSS.

Igor Netto

Nessuno finì in Siberia, quindi, o, per essere più precisi, per nessun calciatore sovietico dopo questa cocente sconfitta ci furono conseguenze fisiche, “solo” disonore. Anzi tre di loro (il grande centrocampista bandiera dello Spartak Igor Netto, Anatoli Bashashkin e Anatoli Il’in) avrebbero addirittura partecipato alla vittoriosa spedizione di Melbourne del 1956. Allargandoci anche ad altri sport, emblematico l’esempio del boxeur Viktor Mednov che tornò in patria con una medaglia d’argento della categoria Superleggeri al collo, ma dopo aver perso la finale contro uno statunitense, Chuck Adkins:[6] ebbene, la carriera di questo pugile durò per altri nove anni.
Ma perché? Perché dopo due sconfitte contro rappresentative di paesi acerrimi nemici, nessuno subì le nefaste conseguenze che ci si potevano aspettare dopo anni di stalinismo in cui una punizione era considerata tale solo se contemplava almeno l’esilio? Certo, la morte di Stalin ha in qualche modo “aiutato” a gestire la situazione, portando tutto il resto (figuriamoci lo sport) in secondo piano, ma probabilmente non dipende solo da questo. Se, infatti, da un lato l’aumentata visibilità mediatica dello sportivo e, in particolare, quella del calciatore professionista (figura che da Jašin in poi sarebbe diventata una vera icona) avrebbe potuto rendere meno semplice giustificare una punizione esemplare, dall’altro è probabile che certe notizie furono trattate dalla stampa in maniera sbrigativa, se non proprio insabbiate, proprio per non enfatizzare l’onta subita dall’Unione Sovietica.
È una congettura, ma si sa che un supplizio ha una funzione innanzitutto politica che si manifesta attraverso una ritualità, il suo “splendore” come lo chiama Foucault. E se il supplizio può essere controproducente perché mina alla base l’idea della superiorità dell’uomo nuovo socialista, come fare a renderlo splendido?

daniele, con fondamentale contributo di federico

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[1] Dalla biografia di Stalin scritta da Robert Conquest.

[2] Il suo libro “I piedi dei Soviet. Il futból dalla Rivoluzione d’Ottobre alla morte di Stalin” è sicuramente la fonte più attendibile sull’argomento, almeno per quanto riguarda la letteratura italiana. Aggiungiamo che senza questo libro sarebbe stata impossibile la stesura dell’articolo che state leggendo.

[3] Le 25 squadre partecipanti dovevano diventare 16 per poi disputare ottavi di finale, quarti, semifinali e finale.

[4] La Jugoslavia sarebbe tornata in patria con una medaglia d’argento, fu infatti sconfitta per 2-1 in finale dalla grande Ungheria di Puskás.

[5] Per ironia della sorte, invece, il campionato lo vinse proprio la Spartak Mosca, l’odiata (da Berija) ”squadra del popolo”.

[6] Peraltro si trattava del primo incontro di pugilato della storia tra un sovietico e uno statunitense.


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