l’articolo 26-10-2015 di Elisa Amatista
In tale prospettiva un ruolo determinante può essere svolto da quel tipo di imprese definite “sociali”, le quali associando due dimensioni apparentemente contrastanti come l’imprenditorialità e la solidarietà, e mettendo in gioco la propria competenza imprenditoriale insieme a nuovi investitori, riescono a far lavorare insieme visioni differenti, e a intercettare risorse inaccessibili ad altri soggetti. L’impresa sociale, formata inizialmente in modo spontaneo, rimodula soluzioni già sperimentate in epoche precedenti, e attua iniziative originali (come ad esempio il volontariato organizzato). Così è diventata protagonista delle politiche del welfare. “Fare impresa” ora significa mutuare dall’impresa stricto sensu l’impostazione organizzativa al fine di canalizzare l’impegno civile in una forma strutturata, sottraendolo alla casualità o all’approssimazione e dando vita a organismi in cui operano insieme lavoratori, volontari, utenti, per svolgere attività imprenditoriale il cui ‘profitto’ è devoluto al sollievo dei bisogni altrui, prima che dei propri. Un ‘imprenditore’ è ‘sociale’ in quanto cerca di trasformare le cose da ‘come sono’ in come ‘dovrebbero essere’. Egli è forse l’unico, o quanto meno il più idoneo, in grado di rispondere a domande che vanno oltre i semplici conti economici.
Attualmente molte entità legali operano come imprese sociali: fondazioni, associazioni cooperative, organizzazioni for profit. Secondo quanto rilevato dalla Commissione Europea sulle iniziative del social business (EC 2011) approssimativamente un’impresa su quattro in Europa è un’impresa sociale (EC 2011). Ciò ha significato la creazione di nuovi posti di lavoro e ha rappresentato pertanto una risorsa importante di occupazione, specialmente nell’attuale situazione di crisi.
Le imprese sociali possono produrre progetti di aiuto più sostenibili, riducendo la dipendenza da fonti esterne, contribuendo all’aumento dei lavoratori dipendenti e all’empowerment. Ciò accresce anche, in termini di mercato, la fornitura dei beni e servizi nonché la domanda di lavoro, e contribuisce a far emergere l’economia informale, può trasformare i lavori informali in attività economiche regolari.
L’importanza del ruolo che il settore privato può svolgere a favore della cooperazione internazionale allo sviluppo, risulta tanto più evidente in un tempo, come quello attuale, segnato dalla crisi economica, dall’assottigliarsi delle relazioni sociali, nonché dall’apporto carente o inefficace del sistema pubblico di welfare e dalle problematiche incontrate nelle politiche sociali tradizionali. Condizioni per cui, in termini più generali, il cosiddetto “terzo settore”, definito anche “non profit”, o “economia sociale“, è andato vieppiù assumendo, in molteplici ambiti, un ruolo determinante nella partnership con gli enti pubblici o con le istituzioni politiche. Si registra, negli ultimi tempi, un consenso sempre crescente sui modelli d’inclusive business, capaci di investire nelle risorse locali, e sarebbero altresì auspicabili nuove forme di business e di modelli valoriali al fine di includere le persone povere in veste non solo di impiegati e consumatori, ma anche di produttori.
Una diversa visione della socialità e un modo nuovo di pensare al benessere degli individui e della collettività, fondati sul dialogo sinergico tra soggetti del privato e del pubblico, al fine di condividere le responsabilità e ampliare i luoghi di decisione alla luce dei principi di sussidiarietà verticale e orizzontale, perseguendo lo sviluppo dell’essere umano, della sua dignità e della sua crescita: è ciò che vuole essere in definitiva l’impresa che si definisce ‘sociale’.