Dunque il prezzo del petrolio continua a mantenersi relativamente stabile intorno ai 55 dollari al barile.
Relativamente, perché, in realtà, le oscillazioni ci sono e sono di rilievo (anche più del 25%, come è accaduto nella seconda settimana di agosto), ma niente a che vedere rispetto ai capitomboli strutturali che periodicamente rivoluzionano i mercati. Come quello dello scorso anno, con il prezzo del barile crollato del 48% in sei mesi (da 115 dollari in giugno a 60 dollari in dicembre), per poi continuare a scendere, assestandosi nei primi 8 mesi del 2015 su una media di 55 dollari.
Il petrolio a questi livelli crea opportunità e rischi.
Evidentemente ci sono benefici immediati per le economie maggiormente dipendenti dalle importazioni. Come è il caso dell'Italia, che nel 2014 ha ridotto la propria fattura energetica (cioè l'esborso netto per l'importazione di energia) a poco più di 44 miliardi di euro, e a circa 39 miliardi nel 2015. Un risparmio di non poco conto, confrontato alle fatture degli anni precedenti: quasi 66 miliardi nel 2011 e nel 2012 e 56 miliardi nel 2013.
Per contro, il permanere di prezzi bassi è il primo passo per creare le condizioni di una nuova fase di prezzi molto alti.
Come calano i prezzi del petrolio
Il meccanismo è più o meno questo. Ovviamente i prezzi crescono quando i consumatori competono per acquisire risorse scarse, per quantità o qualità.
Parallelamente all'aumento dei prezzi cresce anche l'interesse a investire per trovare e produrre nuove risorse. Che esistono ancora in abbondanza, ma che sono più costose, perché si trovano in posti di terra o di mare sempre più remoti e difficili da sfruttare e quindi richiedono investimenti maggiori. Quindi le nuove risorse riescono a calmierare i prezzi, ma li riducono di poco, sicché nel lungo periodo il costo del petrolio tende progressivamente ad aumentare.
Se però, per qualsiasi motivo l'offerta di petrolio arriva a superare la domanda le cose cambiano, e di solito in modo drammatico.
È una situazione che si verifica periodicamente per vari motivi. Per semplificare ne citiamo solo tre:
1. perché una grave crisi economica riduce drasticamente i consumi;
perché uno Stato forte esportatore di petrolio ha interesse a pompare l'offerta per motivi che ritiene politicamente importanti;
3. perché vengono trovate nuove risorse in gran quantità, suscettibili (anche solo in teoria) di modificare strutturalmente il tradizionale mercato dell'offerta.
In questi casi i Paesi grandi esportatori di petrolio possono controllare prezzi e mercato riducendo l'offerta. Ma per farlo devono agire di comune accordo, il che non sempre avviene, perché per molti di essi le entrare petrolifere sono letteralmente vitali. Può così iniziare una concorrenza al ribasso che porta a veri e propri crolli delle quotazioni, come avvenuto, per esempio, nel 1986, nel 1998, nel 2009 e nel 2014.
Nella crisi del 2014, che ci riguarda ancora direttamente, tutti i tre fattori citati hanno giocato a favore del ribasso dei prezzi. Anzi, il primo e il terzo fattore (la crisi economica internazionale che ha drasticamente ridotto la domanda nei Paesi industrializzati, e la nuova produzione di idrocarburi da rocce di scisto negli Usa che, coprendo gran parte della domanda interna, ha ulteriormente e fortemente indebolito la domanda sul mercato internazionale: si ricordi che gli Usa sono il maggiore consumatore al mondo) erano in gioco anche nel 2011-2013, quando le quotazioni del barile erano al massimo. Il mercato però teneva perché la domanda mondiale continuava ad essere sostenuta da alcuni Paesi emergenti, e in particolare dalla Cina. Non appena l'import cinese ha iniziato a dare segni di flessione, per tenere alti i prezzi sarebbe stata necessaria una azione concordata da parte dell'Opec, il cartello degli esportatori. Cosa che è stata impedita dall'atteggiamento dell'Arabia Saudita (maggiore esportatore al mondo), che ha invece esplicitamente puntato a far scendere i prezzi fino al punto di mettere fuori mercato le produzioni più costose, e in modo particolare lo shale oil americano. Il che finora non è avvenuto, ma non è escluso possa avvenire nel prossimo futuro.
Che succederà nel prossimo futuro?
In campo petrolifero è sconsigliabile fare previsioni, non fosse altro perché non se ne ricorda una che si sia dimostrata giusta oltre il volgere di pochi mesi. Invece di previsioni ne girano in gran numero, anche perché molti osservatori e istituti di ricerca sono tenuti a farle. E certo non aiuta il fatto che si tratta di previsioni tutte nello stesso tempo autorevoli e contrastanti.
Secondo Bob Dudley (ceo del Gruppo BP) i prezzi dovrebbero oscillare sugli attuali bassi livelli per almeno un annetto, per quanto alcuni mesi fa, in una intervista a Bloomberg TV, si sbilanciò a dire che "i fondamentali dell'offerta e della domanda mi ricordano quelli del 1986". Per i meno esperti ricordiamo che quell'anno diede inizio a una fase di bassi prezzi durata circa 15 anni!
Né mancano quanti ritengono che il barile non ha ancora toccato il fondo. Secondo un recente rapporto di Goldman Sachs i prezzi continueranno a scendere fino a una media di 40-45 dollari, senza però escludere l'ipotesi che possano arrivare addirittura a 20 dollari.
Per contro, l' Iea (Agenzia internazionale per l'energia) rileva che la ridotta remunerazione del petrolio sta facendo tagliare la produzione un po' ovunque: soprattutto negli Usa, in Russia e nel Mare del Nord, ma anche nell'ambito della stessa Opec, pur con l'Arabia Saudita che dichiara di voler mantenere la propria politica a favore di bassi prezzi. Parallelamente, rileva l'Iea, la domanda sta crescendo praticamente ovunque, e si prevede che nella seconda metà del 2016 raggiunga i 97 milioni di barili/giorno, cioè il massimo livello di sempre. Dunque i prezzi del petrolio torneranno a salire nel 2016, seppure con moderazione.
Va inoltre considerato che le basse quotazioni attuali stanno disincentivando gli investimenti per la ricerca di nuove risorse e/o per la messa in produzione di quelle note. Praticamente tutti i progetti per lo sfruttamento di idrocarburi marginali, i più costosi, stanno subendo uno stop o un rallentamento. Lo stesso Bob Dudley lo scorso luglio stimava in circa 200 miliardi di dollari gli investimenti mancati o rinviati nel 2015 per la produzione di nuove risorse.
Né è ancora chiaro se i produttori americani di shale oil riusciranno ancora a lungo a reggere la concorrenza del barile a 55 dollari, o addirittura a meno. Al momento sembra di si, ma con sacrifici enormi ed evidenti, e soprattutto al prezzo di un indebitamento dell'intera industria estrattiva (costituita non da poche grandi compagnie, ma da oltre 13.000 piccoli produttori indipendenti) che ha abbondantemente superato ogni livello di allarme.
[ Valter Cirillo]
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