Si inaugurerà il 15 settembre 2011 e proseguirà fino al 28 la mostra "L'inconscio fa scacco in 12 mosse - un percorso tra arte e ipnosi" a cura di Ivan Quaroni
personale di Andreea Hartea Raluca, vincitrice della II edizione del Premio Patrizia Barlettani NEXT_GENERATION(www.premiopatriziabarlettani.it )
alla Galleria San Lorenzo di Milanovia Sirtori 31
12 opere per intraprendere un viaggio verso un incoscio (s)conosciuto...
L’inconscio fa scacco in dodici mossedi Ivan Quaroni
L’occhio segue le vie chenell’opera gli sono state disposte(Paul Klee)
L’arte è, per definizione, un tipo di linguaggio capace di oltrepassare i confini del pensiero razionale, di scavalcare le strettoie del logos e, quindi, d’innescare processi di rappresentazione non convenzionali, che non sono immediatamente decrittabili. Intendiamoci, l’arte è comunque una forma di comunicazione, ma la sua è una grammatica traslata, in cui prevalgono figure metonimiche, metaforiche, allegoriche, che l’osservatore recepisce e assimila in modo sostanzialmente diverso dalle informazioni provenienti dalla parola scritta e dalla comunicazione dialogica. Le immagini, infatti, sono strutture complesse, multidimensionali che, in qualche misura, sfuggono a ogni tentativo di descrizione. Questo è anche il motivo per cui la pittura, che è arte immaginifica per eccellenza, continua a sottrarsi a quel destino di morte più volte profetizzato dai paladini delle avanguardie concettuali. Il suo mistero resta ineludibile, come una forza residuale, refrattaria, in grado di rappresentare le istanze più profonde e indicibili dell’essere umano. Non è un caso che una branca della psicologia, quella “analogica”, fondata a Roma nel 1978 da Stefano Benemeglio, affidi proprio alla rappresentazione, un ruolo fondamentale nella comprensione delle dinamiche mentali e, quindi, della terapia. L’analogia comporta un processo di conoscenza non verbale tipica degli artisti, i quali appunto pensano per immagini, traducendo le pulsioni inconsce in figure.
Andreea Hartea, parte proprio da qui, ossia dai suoi studi di psicologia analogica, per sviluppare l’idea di un dialogo costruttivo tra arte e terapia, un rapporto che prefigura un diverso tipo d’inferenza tra il soggetto che produce l’opera e l’osservatore che la fruisce. Le premesse di questo nuovo approccio, risiedono nella considerazione del fatto che, come afferma l’artista stessa, “solo il 5% delle cose che facciamo durante il giorno è dettato dalla parte conscia, mentre il restante 95% è frutto di scelte inconsce”. Lo stesso accade quando ci piace un determinato quadro, piuttosto di un altro. In tale prospettiva, l’adesione dell’osservatore a una particolare opera sarebbe il risultato di una corrispondenza analogica tra quel tipo d’immagine e il suo vissuto. Si tratta di una forma di riconoscimento avulsa dalle più consuete forme d’inferenza razionale, che affonda le radici nel magma subcosciente, il quale è notoriamente in grado di svolgere una quantità gigantesca di operazioni e ad una velocità migliaia di volte superiore a quelle svolte dalla coscienza razionale.
“L’inconscio fa scacco in 12 mosse”, titolo del progetto di Andreea Hartea, che si articola come un percorso in 12 tappe attraverso tre differenti livelli, costituisce una sperimentazione della validità delle teorie della psicologia analogica all’interno del dominio operativo della pittura e, per esteso, della rappresentazione artistica. Come una terapeuta, l’artista struttura il proprio intervento tramite l’individuazione di soggetti significativi, i quali riflettono simbolicamente i conflitti che avvengono all’interno di ogni individuo. Si tratta di un progetto che sottomette il linguaggio pittorico ad uno scopo più ambizioso di quello consistente semplicemente nel suscitare emozioni. Qui il fine è quello di rivelare all’osservatore il funzionamento dei suoi processi cognitivi più profondi. Il titolo, d’altra parte, è programmatico, poiché presuppone il coinvolgimento dell’individuo in almeno uno dei 12 momenti della mostra. Ma per predisporre questa sorta di discesa negli abissi del subcosciente, Andreea Hartea ha dovuto compiere una precisa scelta formale. Il suo stile sintetico, asciutto, minimale, che innerva la pasta pittorica nell’essenzialità della linea e che, per via di una continua interruzione della monocromia, frantuma le figure in un diagramma irriconoscibile, è il frutto di una scelta precisa. La comunicazione immediata, diretta, tramite una figurazione chiara ed esplicativa avrebbe, infatti, compromesso l’esperimento.
I dipinti di Hartea fluttuano in una dimensione mediana tra figurazione e astrazione, in una zona limbica, in cui l’immagine appare ancora in via di definizione, pur essendo perfettamente compiuta nella sostanza. Percettivamente, le opere dell’artista assumono una maggiore definizione quanto più ci allontaniamo da esse e - per una sorta di strana magia - l’occhio digitale della macchina fotografica sembra favorirne la lettura molto più di quanto faccia l’occhio umano, così indissolubilmente legato all’influenza della psiche. Proprio in questa, “singolare tenzone” tra l’opera e lo sguardo del riguardante, ma anche nella differenza cognitiva e ontologica degli osservatori, si consuma l’esperienza analogica. Per favorire il processo di “familiarità” o identificazione, Andreea Hartea usa un formato rettangolare basato sulla proporzione aurea, considerato per secoli un canone di bellezza assoluta. Entro questa cornice, sorta di geometrico strumento di captatio benevolentiae, l’artista allestisce una teoria di sfuggenti figure.
Conflittuale Padre-Obama
Il primo livello, diciamo pure l’ingresso a questo percorso esperienziale, è formato da un trittico di dipinti su fondo bianco, colore che corrisponde simbolicamente alla tabula rasa, al vuoto pneumatico che prelude all’esperienza. Qui si stagliano, come figure mitiche, tre personaggi emblematici della contemporaneità, il Presidente Barak Obama, Madre Teresa di Calcutta e la meno conosciuta Lulù Chua-Rubenfeld, figlia di quell’Amy Chua che ha elaborato una pedagogia incentrata sulla figura inflessibile della madre-tigre. Si tratta di una trinità simbolico-psicanalitica, nella quale è sintetizzato il rapporto del bambino con la conflittualità genitoriale.Regista - M. Thatcher
Il livello successivo, caratterizzato dal colore rosso, che allude alla vita, alla forza e alla passione, cala il conflitto genitoriale, interno a ogni individuo, nella dimensione pratica della vita quotidiana. Il teatro dello scontro è un momento particolare della vita politica britannica, che vede su opposti versanti Margaret Thatcher e Gordon Brown sulla questione della moneta unica europea. Mentre la Lady di ferro, in linea con le istanze conservatrici, si opponeva all’euro, il laburista Brown, pur con qualche perplessità, valutava la possibilità di aderire. Non è, però, la politica l’oggetto dell’attenzione di Hartea, ma piuttosto la dinamica tra spinte tradizionali e trasgressive, che riverbera all’interno di ogni uomo.Senso di colpa - bambino che mangia da terra
Il terzo e ultimo livello, connotato dal colore nero e, dunque, dai sentimenti e dalle esperienze ad esso associati, raccoglie un più nutrito gruppo di opere. Sono sei dipinti che affrontano sei paure fondamentali dell’individuo e in cui, peraltro, la riconoscibilità delle figure diventa, se è possibile, ancora più aleatoria. Le immagini, traslate in episodi quotidiani e prosaici, ma con ciò non meno significativi, indagano temi come l’abbandono, il senso di colpa, la disistima, il timore del giudizio negativo, della solitudine e della morte, insomma tutta la gamma delle angosce e degli sgomenti che, come afferma l’artista, “sono innescate nell’infanzia, il momento passivo dell’individuo, e che in seguito condizionano il corso della sua vita”. Anche dal punto di vista logistico, Andreea Hartea intesse una corrispondenza simbolica con i tre livelli del percorso, collocando i primi due (bianco e rosso) al piano d’ingresso della galleria, rischiarato dalla luce diurna, e il terzo (nero) al piano inferiore, evocativo della dimensione sotterranea e ctonia del subconscio.In definitiva, con il suo uso strumentale della pittura, “L’inconscio fa scacco in 12 mosse” dimostra di essere un progetto di difficile classificazione nel panorama delle ricerche contemporanee. Un progetto liminare, spurio, che muove dai tradizionali confini dell’estetica e sconfina, inevitabilmente, nell’affascinante regno delle nuove applicazioni cognitive, finendo, così, per ridefinire anche il ruolo dell’artista del Terzo Millennio.