Scrivere di musica è come danzare di architettura! Magari la famosa frase di Thelonius Monk può essere trasposta anche al cinema, a maggior ragione quando si scrive di un film che parla di musica, come "A proposito di Llewyn Davis", dei fratelli Coen; i quali fratelli, forse, scrivendo di musica - attraverso il loro film - sono riusciti quanto meno a danzare, di qualcosa se non di architettura. La faccenda si complica ulteriormente, quando si viene a scoprire, poi, che il film dei fratelli Coen è, a sua volta, tratto, ispirato in qualche modo ad un libro costruito intorno alle memorie ed ai racconti di Dave Van Ronk, il quale per l'appunto scrive di musica. Un bel busillis, non c'è che dire!
Insomma, parlare, scrivere, raccontare, una storia, che sia di musica o di cinema, o di architettura, purché sia giusto una storia.
Ed una storia è sempre un modo di considerare il passato come un'esperienza non chiusa, che irrompe improvvisa e si mescola al presente.
Già, una storia. Come quella che ha raccontato Daniela Brogi sul blog de "Le parole e le cose", parlando di questo film e danzando anche lei di qualche cosa, se non di architettura:
Carattere e destino. A proposito di Davis di Joel e Ethan Coen
di Daniela Brogi
«Come dice Wavy Gravy, se ti ricordi gli anni Sessanta vuol dire che non c’eri. Eravamo giovani, pieni di vigore ed entusiasmo – per non parlare del bourbon – e a volte in quegli anni sembrava che la vita fosse un’unica, interminabile festa. Alcune date sono facili da fissare grazie ai ritagli di giornale, ma per un sacco di eventi è impossibile stabilire con precisione l’anno in cui avvennero. Se la mia cronologia a volte vi sembra confusa è perché, almeno in parte, sono confuso anch’io». Questo euforico incipit avvia il capitolo “Il Gaslight” del libro postumo di memorie scritto da Elijah Wald rielaborando i racconti di Dave Van Ronk. L’opera si intitola The Mayor of MacDougal Street. A memoir (2005), ed è stata appena pubblicata da Rizzoli (Manhattan Folk Story. Il racconto della mia vita) in occasione dell’uscita del film ad essa ispirato: Inside Llewyn Davis. Dave Van Ronk era un grande narratore, e la lettura del libro oltre a divertire, mentre fa conoscere meglio la musica americana; oltre a far capire cosa sia stata e cosa abbia significato per l’immaginario e per la politica di quell’epoca la “Great Folk Scare”, la stagione di rinascita del folk, attraverso il jazz e il blues, verso la fine degli anni Cinquanta, aiuta, soprattutto, ad apprezzare lo straordinario lavoro di regia attraverso il quale i fratelli Coen hanno ripreso e trasformato questa storia facendola diventare uno dei loro film più belli e più autoriali, con la mossa rapace che spesso è il gesto inevitabile con cui la creatività si impossessa del mondo per reinventarlo.
Chi era Dave Van Ronk? Leggendo le sue memorie dopo aver visto il film si scopre, con una certa sorpresa, che non era un cantante maledetto morto giovane – è vissuto fino a sessantasei anni, ha registrato più di venti album girando tutto il mondo, fu anche amico e protettore di Bob Dylan, che copiò i suoi arrangiamenti per “The House of the Rising Sun”. Il protagonista di Manhattan Folk Story è un performer nato («adoravo l’attenzione altrui, ma non mi bastava mai»: p. 25), ha il temperamento di chi dice ‘sì’ senza riserve all’esperienza; con l’ottimismo di chi sa, e sapeva, di appartenere a una delle generazioni più fortunate del ventesimo secolo, racconta la propria gioventù configurando la stagione del Greenwich Village, della sua scena musicale e delle serate al “Gaslight Cafè” come una saga sorprendente di espedienti e improvvisazioni mai abbandonate, anche nelle difficoltà e nella fame, dalla fiducia di stare al centro della vita, dalla sicurezza che dietro l’angolo non ci sono le botte, ma il futuro: «Molti dei libri che trattano di quel periodo non riescono davvero a catturarne l’atmosfera, anche perché molte delle persone coinvolte non sono in grado di parlarne con onestà. Alcuni sono amareggiati perché per un motivo o per l’altro non gli è andata bene come speravano, e guardano la gente a cui è andata meglio pensando: “Sarei dovuto essere io ad avere successo. Mi hanno rapinato, mi hanno imbrogliato”. Così raccontano di tutto quello di cui sono stati derubati, di come sono stati fregati, di come i loro amici gliel’abbiano messo in quel posto e gli abbiano voltato le spalle. Ma tutto questo a posteriori. A quel tempo nessuno vedeva le cose in quel modo, a parte una manciata di paranoici incalliti» (pp. 367-368).
Chi è, invece, Llewyn Davis? Per Jean (Carey Mulligan), la donna del suo migliore amico (Jim: Justin Timberlake), che intende abortire perché è andata a letto anche con lui e non sa di chi sia il bambino, Llewyn (Oscar Isaac) è il fratello scemo di re Mida («qualsiasi cosa tocchi diventa merda!»), e la battuta è perfetta, dal punto di vista della sceneggiatura, perché in effetti il personaggio, che per tutto il film ha lo sguardo trasognato di chi non riesce mai a svegliarsi da un incubo, per tutto l’arco della storia, come se fosse da sempre, è sguarnito – anche nel senso letterale che non possiede un cappotto -, è privo di ripari e difese rispetto a una posizione di colpa che ha qualcosa di assoluto e di fiabesco, come la favola di re Mida. Il punto è che il personaggio è qualcosa di molto più complesso e intenso della figura di un perdente. Come dice la sequenza d’esordio del film, che comincia con l’esecuzione al “Gaslight” della ballata tradizionale Hang me, Oh Hang me, Llewyn è prima di ogni altra cosa la musica che canta, e la sua storia infatti è l’odissea di chi cerca e percorre la strada per far trovare casa al proprio talento, per dare alla propria creatività una direzione ignota eppure altra, rispetto al business della musica come entertainment («non ci vedo molti soldi qui» gli dirà il grande produttore musicale Albert Grossman), o come sottofondo intimista con cui accompagnare la digestione a fine serata a casa degli amici intellettuali, o, ancora, come cornice sociale di un progetto di vita piccolo borghese («- Pensi mai al futuro? – || – Il futuro? Macchine volanti? Case sulla luna..- ||- Ecco perché sei fottuto…- || – No, tu sei fottuta: quando vedi il futuro come traslocare in periferia, con Jim, avere bambini – || – C’è qualcosa di sbagliato? – || – Se questo è ciò che significa la musica per te è triste. Tu non vuoi andare da nessuna parte, io e Jim ci proviamo, tu dormi sul divano – »). Tutta questo andare verso una dedizione assoluta però non arriva mai a una destinazione vera, e resta un falso movimento. Perché? Come viene trattata, in termini di composizione della storia, questa vicenda di fallimento? Quello su cui si sofferma di più il film, attraverso le tecniche di ripresa, la caratterizzazione del personaggio attraverso i luoghi e i dialoghi, il montaggio, l’uso della colonna sonora, sembra la resistenza e la difficoltà di Llewyn a entrare davvero in contatto con gli altri. A differenza di Troy Nelson (interpretato da Stark Sands e esplicitamente ispirato al cantante Tom Paxton), che canta e avrà successo, che indossa l’habitus e l’abito del bravo ragazzo americano, cioè la divisa da soldato, e come dice Albert Grossman «he connects with people»; a differenza di Troy Llewyn fatica a mettersi in relazione – e non perché gli manchi l’intenzione o la possibilità: pur di garantire subito a Jean i soldi per abortire, ad esempio, rinuncia alle royalties sul disco inciso con Jim e Al Cody (Adam Driver). È come se Llewyn fosse un disastro malgrado i propri accidenti individuali, e per scavare, capire da dove arrivi questo destino di perdita di cui non si ha coscienza, e quel modo di presentarlo senza dire o spiegare, in maniera che basti a se stesso, come se la sua necessità narrativa non arrivasse dai nessi storici e logici costruiti dal racconto presente, ma arrivasse da più lontano, ci possono forse offrire una traccia proprio le memorie di Dave Van Ronk, nei passaggi in cui spiega che a partire dagli anni Trenta per gli immigrati di prima e seconda generazione il risveglio di interesse per la musica folk era il loro modo di mettere radici in America, soprattutto per gli ebrei. Il padre di Llewyn è irlandese, e ebreo. E, soprattutto, come in tutti gli altri film dei Coen, ma mai così tanto forse come in Inside Llewyn Davis, la musica non è una colonna di accompagnamento, ma la trama sonora attraverso la quale raccontare la storia dell’America, il suo immaginario, le sue molte radici e identità – si ripensa alla canzone folk norvegese The Lost Sheep che fissa l’avvio di Fargo; o all’importanza della musica folk e del blues in Fratello dove sei, ispirato tra l’altro all’Odissea.
Llewyn Davis è figura di un’erranza: è un uomo esistenzialmente allo sbando, senza una sicura direzione. La regia sceglie di raccontare questo girare in tondo al di fuori dei confini classici, e spesso moralistici, della storia del conflitto di un’anima: piuttosto che un’emotività romanzesca, fatta di monologhi, dialoghi chiarificatori, contrapposizioni esplicite, progressioni della trama nel senso di un’acquisizione di consapevolezza, i Coen offrono allo sguardo dello spettatore una sottomissione silenziosa che esiste in sé, senza produrre o chiedere soluzioni. La vicenda del personaggio assume i tratti dell’epos: l’eroe è identico dall’inizio alla fine, senza che ci sia uno scarto, un’eccedenza di visione tra l’io e il mondo. Llewyn Davis, in un certo senso, diventa un mito fuori dal tempo, come Jeffrey Lebowski, perché tra il suo carattere, così come è configurato, e il suo destino c’è un rapporto di equivalenza, di coessenzialità, non di causalità: non la sua esperienza, di azioni o di pensiero, ma il suo carattere fissa il suo destino, collocandolo senza soluzioni di continuità sotto il segno della melanconia.
Llewyn è una ballata che torna su se stessa, riducendo al minimo le variazioni: «nel jazz suoni tutte le note. Dodici tonalità sulla scala, non tre corde su un hukulele» strepita Roland Turner (John Goodman) in una delle sequenze più belle. Anche se il titolo originale del film, che riprende il titolo dell’album di Van Ronk Inside Dave Van Ronk (1964), non prepara la visione di un lavoro di scavo dentro il personaggio, lo spettatore aderisce alla sua vita, provando un’empatia crescente per l’affanno prodotto dal mondo narrato, malgrado l’assenza di focalizzazioni interne. I mezzi formali attraverso i quali il film ci porta sempre più addosso alla fatica di Llewyn rispondono a una logica umoristica, nel senso serio e pieno dell’espressione, e sono principalmente due: il gatto, che funziona da dispositivo ansiogeno perfetto, incollandoci di continuo alla preoccupazione per la sua perdita; e la scelta e il trattamento dello spazio. I luoghi in cui passa e sposta la propria vita Llewyn al di fuori del cono di luce del palcoscenico tornano con una monotonia ossessiva, e sono il vicolo su cui si affaccia l’uscita secondaria del “Gaslight”, i treni della metropolitana, stazioni, soglie, pianerottoli di accesso alle abitazioni inquadrati e ristretti fino all’effetto di strozzatura, scale di emergenza da cui entrare di soppiatto in casa d’altri, abitacoli delle macchine, divani: tutti non-luoghi, zone di passaggio e di appoggio precario, e al tempo stesso figure evocative di preparazione al superamento di una prova, che contengono la promessa di un’uscita e di una destinazione mai raggiunta – come succede ai dischi che giacciono invenduti negli scaffali di un magazzino, o sotto un tavolino.
Torniamo però al gatto, l’altra figura importante di Inside Llewyn Davis. Rosso, come il gatto senza nome di Holly, in Colazione da Tiffany – ma anche rosso come Pickles, il gatto di Ladykillers (2004), sempre dei Coen – il gatto in fuga dalla casa degli amici che hanno ospitato Llewyn diventa l’essere con cui il protagonista passa la maggior parte del film. Ma al significato fiabesco di magico accompagnatore, che in tal senso ricorda pure Toto, il cane di Dorothy nel Mago di Oz, è il caso di mettere accanto un’altra funzione svolta dal gatto, che entra in campo nel medesimo giro di scene in cui appare, attraverso la copertina del disco registrato insieme, il ricordo dell’amico morto (inventato dai Coen) con cui Llewyn formava un duo musicale – la canzone eseguita assieme, Fare Thee Well , accompagna tutta la prima sequenza di Llewyn con il gatto. Quell’essere che scappa, si fa prendere per sfuggire di nuovo e farsi poi riacchiappare, abbandonare e riapparire magicamente non solo crea quasi le uniche occasioni narrative per far scattare il corpo di Llewyn, costringerlo a correre come quando si precipita a suonare con Jim e Al, ma, grazie al teatro di sdoppiamenti e scambi di identità di cui è protagonista, diventa il correlativo simbolico della melanconia di Llewyn, vale a dire della sua incapacità tanto di tenere quanto di lasciar andare l’ombra dell’amico scomparso: «- Ero già in duo – || – Ah. Il mio suggerimento? Tornate insieme – || – È un buon consiglio – ||».
Ma il gatto, almeno quello dietro al quale il protagonista era corso la prima volta, è riuscito a tornare a casa, ed è in quel momento, infatti, che a Llewyn sarà rivelato il suo nome: Ulisse, come il protagonista dell’Odissea, ma, certamente, anche come il titolo della reinvenzione moderna del poema omerico: Ulysses, di Joyce (dove tra l’altro Leopold Bloom è un ebreo irlandese, come il padre di Llewyn).
Llewyn Davis, invece, resta fuori, o meglio resta dentro il tempo rotondo e assoluto di una trama circoscritta. L’esperienza del viaggio – suggerita di nuovo anche dalla locandina di The Incredible Journey, il film di Walt Disney del 1963 davanti alla quale il protagonista, verso il finale, si incanta per un attimo, resta al di là. L’ultima sequenza, che spiega e ripete l’inizio del film facendoci percepire l’inizio e la fine come contemporanei, trasforma il tempo della storia in un ciclo continuo di movimenti destinati a ripetersi. Come in una ballata: «Se non è mai stata nuova non invecchia mai: è una canzone folk».
- Daniela Brogi -
fonte : Le parole e le cose