Altera, riservata e serissima. Jhumpa Lahiri arriva a Venezia e dona tanto e poco di sè al pubblico di Incroci di civiltà accorso a Venezia per l'ultimo importante incontro dell'edizione 2014. Certo resta sullo sfondo il confronto con gli autori indiani che hanno concluso le passate edizioni : Rushdie, Ghosh, Seth, Naipaul. E' forse così spiegabile lo sguardo algido della bellissima quarantottenne bengalese.
L'incontro comincia con una lettura di un brano tratto dal suo ultimo romanzo, The Lowland. Legge in italiano e sorprende il pubblico per il suo accento quasi impeccabile.
La Lahiri è un'autrice di "seconda generazione" nella letteratura anglo-indiana. La prima generazione è quella degli autori che hanno impresso una svolta decisiva nel panorama linguistico di questo ambito. Basti ricordare i Figli della mezzanotte di Rushdie nel 1980 o il Dio delle piccole cose di A. Roy nel 1997. The Interpreter of maladies, la prima raccola di racconti della Lahiri, esce due anni dopo, nel 1999.
Il suo esordio con la scrittura nasce lentamente dopo la laurea, con la partecipazione ad un corso di scrittura creativa a Boston. In quell'ambiente, per la prima volta, si sente realmente appartennete ad un gruppo; per la prima volta sente di poter definire una propria identità che non sia quella sempre in bilico tra una cultura e l'altra.
E quando comincia a scrivere le sorge un dubbio: quale cultura descrivere? Quella bengalese o quella indiana? L'aiuto, la risoluzione di tale dubbio, l'ispirazione, le giungono spesso dalla sua famiglia, dai racconti di suo padre, un piccolo grande uomo che esattamente 50 anni fa lasciò Calcutta per Londra e, successivamente, con una moglie e una figlia, per gli Stati Uniti.
La scrittura la aiuta a risolvere una sensazione di straniamento continuo che avverte in una terra che le appartine completamente e, allo stesso tempo, solo in parte.
La scrittura, per svolgere la sua funzione, deve essere abitudine, una disciplina ferrea, qualcosa con cui avere un contatto quotidiano.
Di una storia Jhumpa Lahiri individua un ingresso, varca una soglia. Scene, personaggi e situazioni vengono poi naturalmente. La scelta di un'entrata parte da uno spazio buio, una stanza ignota nella quale scegliere, cercare, trovare, fallire e ricominciare. Le stanze della scrittura, del racconto e del romanzo, coesistono in lei come in un palazzo, un'antica residenza Rajput piena di misteri e bellezza da scoprire.
Lo spunto a volte nasce da una storia vera, un episodio realmente accaduto per le strade di Calcutta. E' questo il caso di Lowland: l'evento reale è l'uccisione di due fratelli avvenuta davant agli occhi impotenti dei genitori. Da questo evento la scrittrice bengalese comincia a limare la sua storia, a creare tragicità e speranza.
Le ispirazioni, gli incipit, le idee per una storia vengono sviluppate e poi abbandonate per poi essere riprese e rimanipolate, a volte ancohe dopo 10 anni. Quello dello scrittore è un lavoro artigianale, meticoloso.
Racconti o romanzi. In tutte le sue opere è sempre lo stesso l'assillante tema: la diversità, la difficoltà dell'integrazione. E' così anche per Gogol, protagonista del suo primo romanzo, Namesake. Anche questa volta lo spunto arriva da un evento reale: il nome bizzarro di un ragazzino di Calcutta. Personale e reale è anche il difficile rapporto che la scrittrice ha con il suo nome in una società, quella americana, così diversa da quella indiana.
Il ritorno al racconto, nel fluire oscillante della scrittura della Lahiri, arriva con "Unaccustomed Earth" del 2008. Protagonisti sono questa volta giovani indiani di seconda e terza generazione alle prese con una realtà quotidiane che si è allontanata sempre più dall'India. E' in questa raccolta che fa capolinea l'Italia, nella trilogia finale di racconti ambientati a Roma e a Volterra.
Ma è con Lowland, La moglie (nell'edizione italiana) che la Lahiri torna al romanzo e quasi definitivamente in India. Il tono piatto, asciutto, scarno, paratattico di questo ultimo lavoro è il frutto di una scelta studiata, un allontanamento consapevole dall'artificiosità del fraseggiare inglese. Una scelta voluta che la soddisfa ma che, forse, a breve cambierà.
Oggi la Lahiri vuole scriere in italiano. Per questo ha cominciato la collaborazione con la rivista settimanale Internazionale. L'italiano è il mezzo per fuggire dall'inglese e per fare un sondaggio di se stessa. Tale scelta rientra nella sua mancanza di reale appartenenza ad una lingua, sia quella bengalese che quella inglese.
L'interesse per l'Italia chude l'incontro. E' una riflessione su Venezia quella che la scrittrice legge salutando timidamente il pubblico, quel pubblico al quale, quasi mai per un'ora e mezza di dialogo, ha rivolto lo sguardo contenuto e pudico. Descrive in italiano Venezia e la definisce inquietante ed onirica, dalla topografia disordinata. Venezia è il luogo dove è costante il dialogo tra ponti e calli. Scrivere in un'altra lingua equivale ad attraversare un ponte: l'inglese scorre sotto i piedi come l'acqua naturale, l'acqua che manaccia di inglhiottirla. Ma i ponti aiutano ad evitare il contatto con l'acqua, la aiutano a slavarsi. Lo smarrimento naturale di ogni straniero a Venezia equivale allo smarrimento della scrittura in italiano: una sensazione sconvolgente e intrigante,necessaria.
La Lahiri veneziana passa da un ponte all'altro con lingue e storie diverse che affascinano il suo pubblico