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L'incubo del viaggiatore solitario/1 - Tokyo, Giappone

Creato il 10 novembre 2010 da Pulfabio

L'incubo del viaggiatore solitario/1 - Tokyo, Giappone

The Nightmare, Henry Fuseli, 1781

Quali sono gli incubi più comuni di chi viaggia da solo, lontano da casa, in un luogo alieno, dove la gente parla un'altra lingua e pensa in modo diverso, in cui vigono altre usanze, tradizioni, valori e leggi? Forse essere aggredito in un vicolo immondo e buio da un manipolo di ragazzini strafatti di crack, con gli occhi gonfi e lucidi, la pancia vuota e delle lame luccicanti in mano? O che qualcuno ti piazzi due etti di eroina nella borsa a due passi dalla dogana di un paese dove vige la pena di morte per reati di spaccio? O sarà imbarcarsi in un volo di una compagnia secondaria in un paese in via di sviluppo e notare cigolii, scricchiolii, vibrazioni, guasti e spifferi quando ormai hanno chiuso i portelloni? O ancora incappare in un gruppo di ribelli armati in un'area desertica, a cento chilometri dal più vicino centro abitato?
Per me no. Non che sia esattamente un intrepido giramondo ma questo genere di sventure, forse perché non mi hanno mai sfiorato, non mi sembrano molto probabili.
L'incubo che mi imperla la fronte di sudore freddo, la mia inesauribile fonte di panico, l'unico motivo per cui potrei non vorrei girare da solo o fuori dai circuiti abituali, ciò che più mi atterrisce è il pensiero di ritrovarmi seduto al ristorante e dopo aver ordinato, proprio mentre mi sto per rilassare pregustando le pietanze in arrivo, accorgermi di non avere un quattrino in tasca.
Mi è successo due volte. 
La prima in Giappone, nella periferia di Tokyo, fortunatamente non lontano da dove abitavo. In quell'occasione feci in tempo a papparmi un'intera ciotola di riso e manzo prima di infilare la mano in tasca per trovarvi niente più che la speranza di possedere una mazzetta di yen. Come spesso capita in Giappone il cuoco/cameriere/cassiere che stava al di là del banco a cui sedevo non parlava una parola in inglese: mi guardava confuso mentre col coltellaccio continuava ad affettare le sue verdurine. Frugai nella borsa e ringraziai la buona sorte quando vi trovai dentro il passaporto. Glielo porsi e con gesti ampi e lenti gli feci capire che sarei tornato al più presto. Arrivai a casa in apnea, presi tutti i soldi che avevo e rotolai giù dalle scale. Entrai al ristorante paonazzo, madido e sul punto di morire di asfissia, con un groviglio di yen stretti nel pugno come il testimone di una staffetta. Quando lo pagai, il cuoco, con l'espressione impassibile di una maschera del teatro Kabuki, poggiò il machete, sfilò il passaporto da sotto il banco e me lo porse. 
Gli ho lasciato il passaporto, pensavo mentre tornavo. Il passaporto. Beh, ma in Giappone uno si può fidare, almeno qui. Ma poi ricominciavo: gli ho lasciato il passaporto, il passaporto...ma se uno non si fida del prossimo nemmeno in Giappone, allora...ma come si fa, il passaporto...
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