L’India e le sue tradizioni: il rito del Sati

Creato il 19 gennaio 2014 da Agnese77

Ho una passione innata per l’oriente. Sarà il fascino della sua cultura, il suo essere così lontano dai nostri modi di fare e di vivere, la diversa percezione della vita, come anche delle necessità della vita, non saprei. Forse è un mix di tutto questo, ma ogni viaggio in Oriente mi regala sempre qualcosa di nuovo, che non è solo una vacanza, ma una sorta di arricchimento reale, di tranquillità interna e di voglia di tornare.

L’India è una delle mie destinazioni predilette. Ho sempre letto molto sulle sue usanze e sulla sua cultura e ne ho apprezzato molti aspetti anche se devo ammettere che molte usanze, o anche la stessa figura della donna, sono difficili da digerire.

Una delle usanze che più mi hanno colpito è sicuramente il rituale del Sati che consiste nel sacrificio della vedova alla morte del marito. Molti in occidente lo conoscono come il “Suicidio delle vedove” e si tratta di una usanza in realtà proibita sin dal 1829, anche se in realtà si sono verificati ancora casi di questo rituale in tempi recenti.

Secondo questa tradizione la vedova prende spontaneamente la decisione alla morte del marito, e accetta di sacrificarsi pronunciando le parole “sat, sat, sat”. Dopo l’espressione della volontà della donna, un tribunale di Brahmani controlla che la decisione sia stata presa spontaneamente, senza pressioni esterne, soprattutto dei familiari, e verifica che la donna non sia incinta o impura. Solo rispondendo a questi requisiti la donna può essere “immolata” sulla pira funebre del marito.

Indossando il Sari del matrimonio, la donna risale la pira e si distende di fianco al marito. Il fuoco può essere acceso da lei stessa, oppure dal fratello minore, mentre i tamburi iniziano a suonare, forse per coprire le urla, anche se, secondo tradizione la Sati (la vedova ispirata al sacrificio) non urla perché circondata dal fuoco si trasformerà in una dea protettrice venerata negli anni a seguire.

Probabilmente noi occidentali non possiamo che vedere l’aspetto atroce e disumano di questo rito e giustificarlo è impossibile.

La cultura indiana lo descrive invece come atto di devozione della donna per il marito, e viene portato avanti da donne realmente virtuose che sotto una trance sovrannaturale riescono a dominare ogni livello di dolore. Se la donna sopravvive per qualsiasi motivo, come ad esempio una pioggia che spenga il fuoco o familiari che interrompano la cerimonia, la sopravvissuta a quel punto viene venerata perché si è immolata sotto l’influsso dell’ispirazione del Sati (il Sat è infatti una vera “ispirazione mistica”).

Il rituale del Sati diventa molto diffuso durante il periodo medievale soprattutto tra le caste militari o comunque tra le caste elevate e più di una volta si incontrano episodi di jouar: dei veri e propri suicidi collettivi di mogli di soldati morti che oggi si ritrovano “esaltati” in alcuni canti popolari

In queste caste la donna era considerata una proprietà del marito, e quindi alla sua morte una vera nullità, tanto che il suicidio consenziente per  molte era probabilmente l’unica via all’emarginazione.

La vedova indiana che non decide “spontaneamente” di compiere il Sati, soprattutto se senza figli, vive nella miseria, rasata e privata di quasi tutto anche di un letto, è considerata la responsabile della morte del marito, ridotta alla condizione di serva.

L’unico modo per salvarsi è acquistare dignità immolandosi sulla pira funebre del marito.

La proibizione del rituale del 1829 fu imposta dai colonizzatori inglesi, e questo non portò altro che al rinforzarsi del rito come opposizione agli occupatori.

Ha fatto scalpore in tempi relativamente recenti, il 1987, il caso di una diciassettenne del Rajasthan, Roop Kanwar, che si suicidò guidando il corteo funebre fino a sedersi sulla pira che venne accesa dai familiari i quali poi celebrarono la figlia morta con un enorme banchetto in onore della nuova venerata Sati.

Il dibattito che si scatenò in India fu forte, tanto più che il suicidio della ragazza risultò successivamente non volontario.

L’hanno successivo Rajiiv Gandhi proibì il culto, ma ancora oggi in alcuni territori, tra i quali in testa sicuramente il Rajasthan, si hanno esempi di questo “suicidio per amore”.


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