L’indipendenza non è uno Stato
L’indipendentismo, in Sardegna, si è fatto carico di fornire una cornice ideologica e pratica che desse ordine alle priorità individuali e collettive, organizzandole secondo valori (più o meno) precisamente proposti, scanditi, costruiti.
È un’operazione che tende a spiccare in un contesto – quello della classe dirigente sarda – che non è (più) capace di costruire mondi credibili, ai quali decidere di appartenere. Soprattutto perché il ceto politico regionale è impreparato, non ha una base teoretica robusta, percorre le strettoie dell’espediente quotidiano, terrorizzato com’è dalla sua stessa inadeguatezza.
Un decadimento intellettuale che non deriva da “colpe” individuali, quanto invece da un sistema di selezione dei ceti dirigenti che funziona per cooptazione e non per merito, per fedeltà più che per senso critico. Etc. Etc.
In questo deserto (punteggiato per fortuna da oasi di intelligenza), l’indipendentismo attecchisce bene e lo fa in modo ficcante, sfruttando la sua genetica carica populistica, animato com’è, a certi livelli, da militanti smaliziati, preparati, spregiudicati.
E però – tralasciando la debolezza strutturale della loro proposta statalista, su cui magari torneremo – spiace che ancora una volta, sempre, questo movimento si lasci andare ad una retorica anti-italiana imbruttente, vecchia di secoli, aridissima.
Va da sé, l’Italia non può che essere l’obiettivo polemico di chi punta a costruire un edificio identitario nazionalista alternativo. Però non è possibile che si continui a farlo tagliando e cucendo a piacimento la storia della Sardegna, d’Italia, mediterranea in una mitizzazione che – non ci si rende conto – rende la base teorica dell’azione politica fragilissima, a tratti perfino ridicola (soprattutto se si tiene conto della petulante lamentazione che guarnisce il tutto).
La storia della Sardegna di cui tutti parlano (ma che davvero in pochi conoscono) è ancora quella filtrata dai romanzieri sardi, i quali quasi sempre (e spesso senza saperlo) pagano un debito alto alla retorica nazionalistica dell’Ottocento quando non alle mitizzazioni sardiste e marxiste del secolo scorso. La storiografia sarda del Novecento (in linea con quella italiana) ha la responsabilità di avere contribuito in modo sostanziale al dilagare di certe invenzioni, dando credito a ricostruzioni militanti, orientate cioè da logiche politiche prima e più che da metodologie verificabili.
Ma nel 2013 non è più possibile pensare di fondare una nazione usando simili cianfrusaglie retoriche. Come se il dibattito su questi temi fosse fermo agli anni 70-80, come se la Sardegna fosse ancora sospesa in quella dimensione aristotelica nella quale non si muore, ma solo ci si addormenta.
E siccome al peggio non c’è mai fine, sullo sfondo di questo quadro che soporifero è dire bene, si staglia la nuova retorica “sovranista” dei Capellacci, dei Pili e della variopinta pletora di politici che, non avendo una base ideale o ideologica alla quale fare riferimento, si esercitano in un penoso esercizio di papagallismo sui temi forti e centrali della propaganda indipendentista.
Questo conformismo è molto poco indipendente e molto strettamente italiano, perché traduce nel linguaggio locale il populismo che oggi regola gli equilibri politici romani. Alla stregua di quanto fece il sardismo, disseminando l’antiparlamentarismo che altrove diede vita al fascismo.