“L’infinito viaggiare” di Claudio Magris

Creato il 19 giugno 2013 da Marvigar4

   A pochi minuti dall’inizio della prima prova scritta dell’esame di maturità, il famigerato tema d’italiano, le indiscrezioni parlavano di un brano tratto da L’infinito viaggiare di Claudio Magris, opera dello scrittore, germanista triestino pubblicata nel 2005 da Mondadori. In attesa della conferma, mi ero soffermato sull’incipit di questo diario di viaggio, una prefazione dello stesso autore che sostiene quello che vado dicendo da anni innumerevoli: «Le prefazioni sono sempre sospette; inutili se il libro che esse introducono non le richiede o indizi della sua insufficienza se esso ne ha bisogno, rischiano pure di guastare la lettura, come la spiegazione di una barzelletta o l’anticipazione del suo finale».

   Condivido, sottolineo e promulgo. Le prefazioni sono un surplus quasi sempre fuorviante, mistificatorio, arrogante, presuntuoso, denotano, specie nei prefatori della domenica che impazzano introducendo miriadi di libercoli, un narcisismo a dir poco imbarazzante. Hanno la pretesa di sottrarre quello che è il compito sacro del lettore: la riscrittura, la reinvenzione di un elaborato, il farsi artista del fruitore. Chi legge accetta una sfida, si mette in condizioni anche di constatare quanto può valere di fronte a un’altra persona, è un atto di profonda umiltà intellettuale. Il prefatore, salvo le dovute eccezioni, spazza via tutto questo, si sostituisce al lettore e allo scrittore, è un intruso, un Polonio (con l’ultima definizione ho chiuso il cerchio).

   Per il resto, mentre stavo scrivendo ecco giuntomi il testo, tratto dalla prefazione (quarto paragrafo) del libro di Magris, che dovrebbe costituire la prima traccia dell’esame:

   Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. Oltrepassare frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forma, salvandola così dall’indistinto – ma senza idolatrarle, senza farne idoli che esigono sacrifici di sangue. Saperle flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte.

   Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte. In Verde acqua Marisa Madieri, ripercorrendo la storia dell’esodo degli italiani da Fiume dopo la Seconda guerra mondiale, nel momento della riscossa slava che li costringe ad andarsene, scopre le origini in parte anche slave della sua famiglia in quel momento vessata dagli slavi in quanto italiana, scopre cioè di appartenere anche a quel mondo da cui si sentiva minacciata, che è, almeno parzialmente, pure il suo.

   Quando ero un bambino e andavo a passeggiare sul Carso, a Trieste, la frontiera che vedevo, vicinissima, era invalicabile – almeno sino alla rottura fra Tito e Stalin e alla normalizzazione dei rapporti fra Italia e Jugoslavia – perché era la Cortina di Ferro, che divideva il mondo in due. Dietro quella frontiera c’erano insieme l’ignoto e il noto. L’ignoto, perché là cominciava l’inaccessibile, sconosciuto, minaccioso impero di Stalin, il mondo dell’Est, così spesso ignorato, temuto e disprezzato. Il noto, perché quelle terre, annesse dalla Jugoslavia alla fine della guerra, avevano fatto parte dell’Italia; ci ero stato più volte, erano un elemento della mia esistenza. Una stessa realtà era insieme misteriosa e familiare; quando ci sono tornato per la prima volta, è stato contemporaneamente un viaggio nel noto e nell’ignoto. Ogni viaggio implica, più o meno, una consimile esperienza: qualcuno o qualcosa che sembrava vicino e ben conosciuto si rivela straniero e indecifrabile, oppure un individuo, un paesaggio, una cultura che ritenevamo diversi e alieni si mostrano affini e parenti. Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano e andando da una riva all’altra fino a non sapere più bene da quale parte o in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo.

   E qui, senza fare il prefatore, mi sovviene di quanto l’idea di viaggio di Magris appartenga al Novecento, sia il frutto della storia del secolo scorso, una storia europea di conflitti, di divisioni, di scelte fatte a tavolino per cui, da un momento all’altro, la frontiera si trasformava da semplice linea quasi trasparente da oltrepassare senza problemi a segno invalicabile che chiudeva un mondo fino a un minuto prima familiare e accessibile. È la storia di Trieste, degli italiani che si videro esclusi al di qua o al di là del confine, è la vicenda di un dramma psicologico oltre che storico. All’improvviso il viaggio mutò di significato, per alcuni, gli istriani, divenne una fuga necessaria, lo scampare una possibile morte, per altri, i non istriani, un percorso accidentato e pericoloso, un’esperienza da conquistare a fatica, una conoscenza oscurata e manomessa. La frontiera si era ispessita, il muro immaginario tra un luogo e un altro trasformato in una barriera che lasciava intravedere una zona interdetta. Ma l’aspetto più grave di questa vicenda storica è stato l’innalzamento di un altro muro, molto più alto e molto più reale, il muro che separava, allontanava le persone, le rendeva ignote, estranee, ostili, appartenenti a due mondi non più dialoganti. Le frontiere flessibili, provvisorie e periture furono improvvisamente percepite come irremovibili, definitive e eterne, il presente caduto dall’alto, ordinato dal potere, si espanse, immobilizzando a tempo indeterminato il passato e il futuro. E così il viaggio, tema cardine dell’umanità, della conoscenza attraverso i luoghi, le tradizioni, le culture, ha assunto nel Novecento, almeno fino alla caduta del Muro di Berlino, un valore che Claudio Magris conosce fin troppo bene per averlo vissuto sulla propria pelle: il valore della conquista, della sfida e del superamento di se stessi attraverso questo valicare le frontiere, annullandone le asperità, le contraddizioni.

   Verrebbe da chiedersi: nell’epoca di Internet, delle linee virtuali, dei confini impalpabili e degli spostamenti fisici sempre meno difficoltosi, che senso può avere l’esperienza del viaggiare, quali conseguenze avremo da questo apparente annullamento dell’ignoto attraverso il web, le trasmissioni immediate di dati, informazioni etc., le comunicazioni simultanee tra luoghi in passato “invalicabili”? Un’altra domanda: senza la fatica della conquista, dell’abbattimento delle frontiere, quale conoscenza ci verrà offerta o potremo  acquisire? Siamo sicuri che ciò che oggi ci sembra disponibile e non più ignoto sia effettivamente fruibile?

   Una cosa è certa, gli studenti che si sono visti recapitare questa traccia per il loro esame dovranno fare uno sforzo non certo agevole: l’immedesimazione, l’empatia nei confronti di chi ha vissuto un’altra storia, un’altra epoca, un’altra concezione del viaggio, un’altra vita. Chi è nato negli anni ’90 del Novecento si è visto consegnare un altro mondo rispetto a quello che Claudio Magris ha conosciuto e descritto, un mondo che pare un salto nel vuoto rispetto al precedente, o forse una stasi in attesa di chissà quali avvenimenti…

   In bocca al lupo ragazzi!



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