Però la vera arma segreta di Mosca è Putin che ha reagito con tempismo e astuzia al tentativo di risucchiare l’Ucraina nel cono della Nato ed è poi passato al contrattacco in Siria, mettendo l’alleanza atlantica di fronte al suo stesso caos. Non è certo che zar Vladimir sia uno statista illuminato o più intelligente dei suoi avversari, ma è semplicemente uno che viene dai servizi segreti, ossia da quelle organizzazioni che ormai hanno ramificazioni ovunque, persino in molte associazioni dette umanitarie e hanno assunto un peso determinate nelle decisioni delle elites politiche da quando queste ultime non rappresentano più nessuno se non i gruppi di potere economico e finanziario.
Del resto esiste pure un ragione per la quale spioni e controspioni hanno assunto la fausta denominazione di intelligence; un po’ per giocare le opinioni pubbliche presumibilmente restie a dare eccessivo credito a tesi e notizie provenienti dal sistema spionistico, ma semanticamente più inermi se qualcosa ha a che fare con l’intelligenza; un po’ per marcare il ruolo centrale e più politico assunto dai servizi segreti dentro una geopolitica dove i grandi gruppi di pressione hanno assunto la parte di protagonisti.
Putin conosce a memoria tattiche e strategie dei suoi avversari, sa leggere le mosse più di quanto non possano farlo le elites occidentali e fa le sue contromosse, scioccamente interpretate dai media occidentali. Quando ha accennato alle armi nucleari da usare contro l’Isis era chiaro che avvertiva la Turchia e la Nato a non pensare nemmeno per un momento di chiudere i Dardanelli o quando ha lodato, sia pure in modo abbastanza vago e in certo senso fuori onda, il candidato Donald Trump, lo ha fatto per spostare verso il basso il livello di russofobia dei candidati più accreditati e destare sconcerto proprio nei servizi che certo vorrebbero un presidente più guerriero che politico, ma che sono di fatto i tessitori della politica anti russa. Senza dire che un pragmatico selvaggio alla Casa Bianca farebbe molto più comodo a Mosca di ciechi reazionari come Ted Cruz personaggio che soffre della feroce sindrome di integrazione dell’immigrato “speciale” oltre che essere tra i fortunati vincitori della lotteria anticastrista tra le famiglie in vista dell’apparato di Fulgencio Batista. Insomma rappresentante di una certa idea dell’America che ne sintetizza il peggio, ovvero l’interventismo e l’eccezionalismo di marca democratica coniugato al reazionarismo del Tea Party.
Certo non occorre chissà quanta astuzia per comprendere che Putin fa il suo gioco anche quando parla delle elezioni americane e che di certo non loda Trump in quanto candidato antropologicamente più vicino, come nella tesi a giornali unificati. Ma andare oltre significherebbe mettere in luce la povertà della politica americana, la sua dipendenza da altri interessi e/0 dagli assunti imperiali che la determinano. Per questo Putin ha un vantaggio decisivo nella partita a scacchi, anticipare e condizionare le mosse dell’avversario molto più di quanto non possano fare le elite occidentali che devono ricorrere a vari piani di manipolazione tra l’azione e la sua giustificazione, tra la realtà e l’immagine.