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L’interesse di ciascuno e i valori di tutti. Tramonto dell’Europa e orizzonte multipolare

Creato il 12 dicembre 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
L’interesse di ciascuno e i valori di tutti. Tramonto dell’Europa e orizzonte multipolare

L’Università Statale Russa di Economia e Commercio di Mosca (RGTEU), partner dell’IsAG, ha concluso recentemente l’undicesima edizione delle “Vasil’evskie Čtenija” (“Letture vasil’eviane”), convegno annuale in memoria dell’artista russo Konstantin Alekseevič Vasil’ev (1942-1976) che si propone di discutere periodicamente i principali problemi della contemporaneità da una prospettiva soprattutto sociologica e di storia della cultura. L’edizione di quest’anno, dal titolo “Interessi e valori della società contemporanea”, si è articolata come di consueto in varie sessioni nel corso del mese di ottobre. In rappresentanza dell’IsAG è intervenuto Dario Citati [nella foto], direttore del Programma di ricerca “Eurasia”, nel corso dei lavori della sessione plenaria tenutasi il giorno 31 ottobre nella Sala delle Assemblee dell’ateneo moscovita. Qui di seguito il testo italiano dell’intervento; l’originale russo è di prossima pubblicazione sulla rivista “Vestnik RGTEU”.

 

If there is one thing worse than the modern weakening
of major morals it is the modern strengthening of minor morals.

G. K. Chesterton, Tremendous Trifles

La vida humana, por su naturaleza propia, tiene que estar puesta a algo,
a una empresa gloriosa o humilde, a un destino ilustre o trivial.

José Ortega y Gasset, La rebelión de las masas

Il titolo del presente Convegno sembra essere volutamente provocatorio: concetti come «interesse» e «valore» dovrebbero appartenere non soltanto ad àmbiti diversi, ma costituire due termini quasi contrapposti. Al campo dei valori, infatti, possono essere ascritti tutti i tentativi di postulare una dimensione socialmente condizionante delle idee di bene e di male: nonostante l’estrema varietà di concezioni morali riscontrabili attraverso i secoli e presso i più popoli più diversi, in linea generale i valori rappresentano ciò che unifica e vincola una data comunità umana. Non a caso, d’altronde, al concetto di religione – che non si esaurisce esclusivamente nella morale, ma che resta inseparabile dall’àmbito dei valori – gli umanisti rinascimentali attribuivano proprio il significato di «tenere insieme» (religare). Il lemma interesse ha invece tutt’altro etimo: «stare in mezzo», ossia «stare tra le cose di qualcuno» (inter esse negotia alicuius), il che implica già l’idea di estraneità e di separazione tra gli elementi di un insieme. In linea di principio i valori cercano di unire, dunque, mentre gli interessi sono ciò che distingue e ciò che separa.

Eppure, nel percorso storico di quella parte dell’umanità che, spesso impropriamente, viene definita «occidentale», interessi e valori hanno finito per intrecciarsi. Nella vita civile di molti Paesi l’interesse non soltanto ha acquisito piena cittadinanza nel campo della morale, ma in qualche caso è assurto a grado di misura di sviluppo della civiltà. Questa condizione è forse anche il risultato di quel processo storico-geografico di lungo periodo, sociologicamente analizzato da Ferdinand Tönnies, in cui si è consumato il passaggio dalla comunità (Gemeinschaft) alla società (Gesellschaft). La comunità, storicamente riferibile al mondo agricolo o ai piccoli comuni che componevano la Res Publica Сhristiana del Medioevo, è un ordine fondato su un modo di sentire comune e reciproco, sancito dal costume e dai vincoli di parentela e amicizia, di cui la famiglia rappresenta l’archetipo. La società, agglomerato artificiale e meccanico dell’èra industriale, si costituisce invece a partire dalla co-esistenza di individui isolati e indipendenti gli uni dagli altri, uniti prevalentemente da vincoli contrattuali e da una logica di scambio e di tornaconto – cioè appunto dall’interesse.

Nei Paesi in cui maggiormente si è affermato questo processo, in special modo in quelli anglosassoni, è d’uso ritenere «sviluppate» e addirittura «civilizzate» quelle culture che riconoscono nell’interesse il principio delle azioni umane e che proprio nella competizione fra interessi contrapposti manifestano i segni di maturità sociale e di modernità politica. Con una grossolana deformazione semantica, le forme di organizzazione improntate a questi principî ricevono spesso la qualifica di «democrazia». In realtà esse riflettono invece quella condizione che Benjamin Constant, in modo un po’ schematico ma convincente, riteneva essere l’elemento distintivo dei Moderni rispetto agli Antichi: l’esperienza della libertà come godimento individuale e non più come esercizio diretto di un potere decisionale collettivo.

Questa distinzione, così come quella fra comunità e società, può essere in certa misura ricondotta alla «rivoluzione spaziale» che si è realizzata a partire dalle scoperte geografiche del XV secolo, per affermarsi poi nel continente europeo con i processi di urbanizzazione di massa e di industrializzazione. La dimensione comunitaria è stata cioè erosa anche da un processo geopolitico, che ha radicalmente trasformato la rappresentazione dello spazio e i rapporti umani attraverso lo sviluppo della tecnica e delle vie di comunicazione. Già gli storici del mondo classico notavano la profonda interrelazione tra organizzazione politica ed estensione territoriale; per Constant, la libertà degli Antichi era caratterizzata da un’etica condivisa anche perché si realizzava in comunità di piccole dimensioni. Ma è forse Carl Schmitt l’autore che ha colto meglio di tutti il sottile nesso tra lo spazio geografico e lo spazio morale, cioè tra la perdita di un luogo di insediamento sulla terra e la perdita di valori unificanti in uno spazio senza confini dominato dalla tecnica.

Secondo il grande giurista tedesco, il nomos del mondo moderno prende avvio proprio da quella rivoluzione spaziale «marittima», cioè dal dominio sugli oceani raggiunto dall’Inghilterra e dalla rivoluzione industriale cominciata proprio in quel Paese. Questo connubio tra Mare e Tecnica non poteva essere frutto del caso, bensì fu conseguenza dell’insularità britannica. L’esistenza tellurica è infatti segnata dal radicamento in un luogo delimitato, definito da confini naturali e umani, che vincolano l’attività economica alla stabilità e la vita relazionale alle norme morali. L’esistenza marittima, cioè la percezione dello spazio attraverso il mare, libera invece la vita da tutti i confini e favorisce l’autonomia, il distacco dalle relazioni stabili, il gusto prometeico del «nuovo» e quindi la ricerca e il progresso tecnico. Proprio perché cominciò a «guardare la Terra dal punto di vista del Mare», l’Inghilterra diede avvio alla rivoluzione industriale, tracciando non soltanto un cammino materiale che tutti gli Stati seguirono (anche per non soccombere), ma favorendo la stessa emancipazione dai valori, intesi come «ciò che tiene insieme». Non è un caso, probabilmente, che proprio nell’Inghilterra ormai «marittima» si sviluppò il fenomeno delle enclosures, che condusse alla fine dell’usufrutto delle terre comuni abolendo le usanze comunitarie dell’Europa medievale. Il liberalismo (per il quale i diritti di proprietà dell’individuo astratto preesistono ai rapporti sociali) e la teoria economica classica (сhe considera l’interesse, il desiderio di profitto come il principio che motiva l’azione di ogni uomo), nacquero anch’essi nella nebbiosa Albione.

È forse questa una delle plausibili genealogie della società contemporanea, dove tra interessi e valori sembra essersi frapposto uno iato incolmabile, al punto che la stessa nozione di «interesse generale» appare oggi come un autentico ossimoro. L’interesse non può mai essere generale, ossia pienamente comune e condiviso, proprio perché si determina a partire da una relazione di confronto, se non di aperto conflitto, con un soggetto altro. Gli interessi, ad esempio, si dicono nazionali nella misura in cui si distinguono chiaramente da quelli di un altro Stato. All’interno di una compagine statale i gruppi di interesse sono tali perché difendono beneficî che è difficile conciliare con quelli dei proprî compatrioti. Anche i diritti delle minoranze – che in alcuni casi sarebbe più appropriato definire interessi delle minoranze – rappresentano spesso la rivendicazione di un’autonomia del particolare sul generale. A sua volta, l’interesse di un singolo individuo si dice privato proprio perché non coincide con quello di altri individui. Dove l’interesse assume una connotazione esplicitamente conflittuale è proprio nell’economia moderna: la dottrina che, secondo Louis Dumont, ha conferito al rapporto con le cose una posizione di primato rispetto al rapporto con gli altri uomini. È opportuno illustrare con un esempio pratico, desunto proprio dall’economia europea, la difficoltà di determinare in modo trasversale il concetto di interesse nella società contemporanea.

L’Unione Europea è un membro del WTO e fra i suoi principî cardine annovera il sostegno alla libera circolazione delle merci. Nel settore dell’agricoltura, tuttavia, ha ricevuto sovente l’accusa di condurre una politica di tipo protezionistico, applicando dazi doganali sulle merci estere o incentivi ai produttori locali per difendersi da una competizione di mercato potenzialmente pericolosa. Ostacolando la concorrenza, questa politica ha contribuito al mantenimento di un alto livello dei prezzi, facendone ricadere i costi sugli stessi consumatori europei. Non sarebbe facile determinare quale scelta incarni meglio l’applicazione di un onnicomprensivo interesse generale: se la difesa del proprio lavoro da parte dei produttori oppure il diritto dei consumatori di poter scegliere tra una varietà di prodotti e non pagare il sovraccosto di una forma indiretta di trust.

Da una parte, la politica protezionistica risponde a una convinzione pienamente comprensibile e, volendoci esprimere ancora con le categorie schmittiane, «tellurica»: l’idea che il costo delle merci non possa essere disgiunto dal territorio in cui esse sono prodotte e dal lavoro degli abitanti che le hanno realizzate. La solidarietà fra le componenti di un ordinamento politico passa pertanto anche attraverso la valorizzazione delle strutture produttive del suo territorio, soprattutto se il sacrificio chiesto alla totalità dei membri (sopportare costi che potrebbero essere più bassi) appare giustificato dalla necessità di proteggere una minoranza da un rischio ben più pesante (la crisi del settore e la disoccupazione).

D’altra parte, è altrettanto evidente che la scelta di difendere un dato settore da una concorrenza ritenuta, a torto o a ragione, sleale, dipende oggi dal grado di rappresentanza politica del settore stesso e pertanto riflette i rapporti di forza esistenti, più che essere l’applicazione di un principio coerente. Non tutti i rami produttivi riuscirebbero ad ottenere le medesime forme di tutela, qualora invocassero garanzie per proteggere la propria stabilità. Il paradosso è che, quand’anche ciò si realizzasse, detto protezionismo non condurrebbe all’affermazione di un «interesse generale», bensì ad una stagnazione dell’intero sistema dovuta proprio alla pretesa di stabilità di ogni sua componente. Parafrasando la nota metafora di Menenio Agrippa – l’ordine sociale come un corpo, di cui classi e ceti rappresentano gli arti – l’eccessiva fermezza di ciascun membro comporta la paralisi dell’organismo. È quello che si verifica quando non soltanto le strutture produttive, ma le diverse istituzioni pubbliche e private (funzionarî dello Stato, sindacati, ordini professionali, associazioni imprenditoriali), esercitano una pressione tale da impedire qualsiasi cambiamento, in un difficile equilibrio tra legittime rivendicazioni e lobbismo corporativo.

Da questo discorso emerge forse in modo abbastanza efficace la vaghezza degli appelli all’interesse generale in un ordine sociale in cui la divisione del lavoro, la libera circolazione di capitali e la concorrenza costituiscono non solo il motore dello sviluppo economico, ma spesso addirittura il più solido fondamento della vita civile. In tale contesto l’interesse generale, non potendo mai realizzarsi né nella somma di tutti gli interessi particolari, né tantomeno nell’arbitraria e indefinita volonté générale di rousseauviana memoria, può tradursi nel migliore dei casi in un compromesso fra interessi contrapposti. Probabilmente è proprio in questo che può risiedere oggi l’arte di un buon governo, che in forza della sua legittimità potestativa dovrebbe saper mediare nei conflitti senza privilegiare le componenti più avvantaggiate.

Si può dire che il perseguimento dell’interesse rappresenti la trasposizione più evidente, cioè quella economica, dei più generali principî di autonomia e di autodeterminazione. Come tale, esso non va sacrificato nell’ambito di un’irriducibile dicotomia tra il singolo e la comunità, che dovrebbero costituire due termini di relazione e non di opposizione. È significativo, in questo senso, che molti sostenitori della centralità dei valori nella sfera pubblica (da Berdjaev a Mounier, da Chesterton a Ortega y Gasset) abbiano esortato a non confondere la dimensione comunitaria – in cui si realizzano i legami affettivi e trovano spazio i valori condivisi – con il collettivismo, cioè con l’anonimato di massa e l’annullamento indiscriminato delle differenze in nome di un bene astratto; e, preliminarmente, a distinguere la persona, identità irripetibile e radicata nella relazione dialettica con gli altri, dall’individuo, unità atomizzata che esiste «prima» di qualunque legame famigliare, sociale e civile.

Proprio a partire dalla centralità della persona si può convenire che la libertà di scelta – e l’iniziativa economica che ne è complemento – se inserita in una cornice di regole e soprattutto di costumi condivisi può rappresentare una risorsa per lo sviluppo, uno stimolo all’intraprendenza e al senso di responsabilità, favorendo anche la selezione di classi dirigenti e di gerarchie fondate sul merito e sulla competenza. Al contrario, è noto che molte forme di solidarismo, specie se realizzate attraverso le strutture centralistiche e burocratiche dello Stato moderno, spesso degenerano in fenomeni clientelarî e assistenzialistici, senza garantire per questo l’armonia sociale.

Il problema non sta dunque nel riconoscimento di legittimità all’interesse e alla libertà individuale in quanto tali, che in forme limitate si possono ritrovare anche nelle realtà più conservatrici. La crisi di valori si determina tuttavia a partire dalla proporzione che questi assumono nei confronti della sfera dei doveri, del costume e dell’identità storica, veicolando talora un sentimento cosmopolita che, come profeticamente insegnava Nikolaj Trubeckoj, risulta essere soltanto lo sciovinismo mascherato di un determinato stile di vita. Nel momento in cui un ordinamento politico stabilisce come valore fondante il diritto di ciascuno di scegliere arbitrariamente i proprî valori, riconoscendo come unico limite quello strettamente imposto dalle leggi, si realizza ciò che i comunitaristi americani hanno descritto come «liberalismo procedurale»: un ordine relativista, se non apertamente nichilista, che nega all’idea stessa di valore una dimensione di riconoscimento pubblico. Da ciò deriva un’applicazione distorta del pluralismo, in cui la tolleranza diventa sinonimo di indifferenza ma si trasforma in ostilità quando incontra un’autentica proposta valoriale.

Uno degli esempi più illuminanti in merito è il duro contrasto intercorso nel 2011 fra l’Ungheria e l’Unione Europea, dovuto all’inserimento nella Costituzione ungherese del riferimento al cristianesimo come valore fondante della nazione magiara. Anche perché accompagnato da misure restrittive verso gli interessi di operatori finanziarî stranieri, questo riferimento è valso al Presidente Viktor Orbàn un attacco sdegnato da parte dei rappresentanti di istituzioni “liberali”. In fondo si tratta di un rimprovero che molti Paesi europei già da tempo si auto-infliggono, riducendo gli elementi costitutivi della propria storia – di cui restano tracce visibili nella cultura, nell’arte, nell’architettura e in forma degradata persino nella mentalità dei rispettivi popoli – ad una dimensione folcloristica, museale o nel migliore dei casi ad affare privato. Ciò non riguarda soltanto le tradizioni religiose, dove questo processo di rimozione appare più evidente, ma tutte le componenti della cultura materiale e immateriale in grado di promuovere un sentire morale condiviso, che potrebbe rappresentare la necessaria cornice entro cui garantire un sano pluralismo di idee.

Storicamente questo tipo di modello liberale ha conosciuto un periodo di momentaneo ma assoluto trionfo dopo la caduta dell’Unione Sovietica, diventando la base ideologica del cosiddetto «interventismo umanitario» a guida statunitense. Solo negli ultimi anni, a causa dei risultati spesso fallimentarî delle operazioni militari e grazie all’emergere di nuovi poli geopolitici (America Latina, Russia, Cina, India), esso ha iniziato timidamente ad essere messo in discussione. Affermare che la politica estera USA si basa sul perseguimento degli interessi dietro la difesa dei valori sarebbe banale e forse neanche sempre corretto. Nella teoria della cosiddetta «esportazione della democrazia» – a prescindere dal suo uso propagandistico per giustificare interventi militari motivati da scopi strategici o economici – si può riconoscere infatti una volontà di egemonia universalista per forma e relativista per contenuto. Universalista perché pretende di rappresentare un modello applicabile ovunque; relativista perché nella sua essenza non propone un autentico sistema di valori, bensì un insieme di tutele giuridiche che dovrebbe permettere ad ogni individuo di vivere secondo le proprie scelte e i proprî interessi in un mondo dai confini sempre più labili.

Benché presentata come la possibilità più attraente, questa idea presuppone una concezione astratta dell’essere umano che Michael Sandel ha efficacemente definito unencumbered self, ossia «il sé disincarnato». L’emancipazione da ogni vincolo di appartenenza non implica infatti la possibilità di sperimentare una libertà incondizionata. Affrancata dalla sua dimensione geografica, storica e comunitaria, nella maggior parte dei casi l’identità individuale si costruisce nel reticolo di oggetti e stimoli dell’istituzione senza confini per eccellenza, il mercato, in cui l’interesse diventa cifra costitutiva anche dei rapporti umani. L’ormai celebre definizione di modernità «liquida», utilizzata per indicare il nichilismo esistenziale e i condizionamenti psicologici indotti della società dei consumi, sembra più che mai calzante perché involontariamente richiama proprio la caratterizzazione «marittima» dello sradicamento teorizzata da Carl Schmitt.

Esistono delle possibilità di invertire questa tendenza e riportare la dimensione dei valori al centro della società moderna? I Paesi europei, che vivono simmetricamente una crisi economica e una crisi di valori, sono forse quelli maggiormente chiamati a rispondere. Al di là delle decisioni contingenti da assumere, si possono indicare tre linee direttrici fondamentali per tentare di ridurre il divario tra interessi e valori; cioè anche per risanare un’economia che – realisticamente – resterà orientata alla competizione fra interessi, ma i cui effetti negativi potrebbero essere mitigati proprio da un sentimento valoriale di appartenenza a un destino comune.

Il primo passo è rappresentato dalla necessità di decostruire e risemantizzare la stessa categoria di «Occidente». L’idea moderna di Occidente nasce dal pensiero politico statunitense, professata da Jefferson a Monroe proprio per differenziarsi dall’Europa, se non addirittura per schierarsi contro l’Europa. A partire dalla rivoluzione spaziale inaugurata dalle scoperte geografiche, le categorie di Oriente e Occidente non sono più riferibili ai medesimi e pur non univoci significati che avevano nell’Antichità o nel Medioevo. Geograficamente l’Europa non può essere in alcun modo assimilata all’Occidente, da cui la separa un oceano. È proprio a occidente che cala il sole e forse non esprime un vuoto simbolismo l’idea che, muovendo verso occidente, l’Europa in quanto soggetto unitario di civiltà si sia diretta verso il suo tramonto. L’Europa può riconoscersi correttamente solo come l’Occidente dell’Oriente: dunque come la penisola occidentale del Mondo Antico, il grande continente che occupa l’emisfero orientale della Terra, laddove l’«occidentalismo» che ne oscura le radici geostoriche rappresenta il suo snaturamento. La coscienza della propria collocazione storica nello spazio è un momento essenziale anche nel percorso di definizione delle proprie decisioni pratiche.

Il secondo aspetto concerne invece la riscoperta delle proprie tradizioni. Si tratta di un terreno particolarmente insidioso, che si presta facilmente a giudizî arbitrarî e selettivi. D’altronde, proprio parlando di «tirannia dei valori», Carl Schmitt adombrava esattamente la situazione in cui gli appelli alla dimensione valoriale risultano privi del sostegno di robuste tradizioni storiche e si realizzano come un’imposizione di principî astratti. Tutti i richiami all’identità contengono in sé il pericolo di una chiusura eccessiva verso l’altro da sé e – peggio ancora – di un travestimento ideologico atto a difendere interessi privi di legame con i conclamati valori. Un esempio evidente in questo senso è il dibattito sulle «radici cristiane» dell’Europa, che rappresenta l’altra faccia della medaglia del più recente caso ungherese ricordato in precedenza. Soprattutto nel periodo dell’attacco all’Afghanistan la tesi delle radici cristiane (di per sé legittima e fondata, se non intesa come totalizzante ed esclusiva) è stata portata avanti con argomenti spesso razzistici dai sostenitori dello «scontro di civiltà» non certo in nome di un recupero dei valori comuni ai diversi Paesi europei, bensì attraverso una discutibile identificazione – funzionale al disegno strategico statunitense – tra libero mercato, democrazia liberale e religione cristiana. A cosa si può ricondurre allora l’identità dell’Europa, che ospita una pluralità di culture nazionali, civili e religiose e che in fondo non conosce neanche precisi confini continentali?

Una delle interpretazioni più convincenti è quella del filosofo francese Rémi Brague, che ha insistito sul carattere profondamente «romano» dell’Europa. Con questo aggettivo ci si riferisce non soltanto ad una civiltà specifica, bensì soprattutto alla capacità di ricevere, rielaborare e trasmettere le culture provenienti dai territorî circostanti e addirittura dai popoli conquistati militarmente. Secondo Brague, la grandezza dell’Impero romano – e dell’Europa medievale che ne raccolse l’eredità – fu proprio quel sentimento di «secondarietà» rispetto alle culture precedenti che consentì ad esempio la ricezione della cultura greca o l’accoglimento del cristianesimo nella cornice del diritto romano. Un’attitudine che va al di là di un neutrale sincretismo e si manifesta come una rielaborazione di elementi allo stesso tempo diversi e affini, come si può riconoscere anche nel successivo incorporamento delle usanze germaniche o nel contributo dato dalla cultura araba al Medioevo latino.

L’Europa come esito etnografico e spirituale degli influssi provenienti dagli spazi contigui del Mondo Antico (dai primi Indoeuropei originari dell’Asia alle culture semitiche del Vicino Oriente e del Nord Africa, sino alle migrazioni dei popoli della tarda antichità), incarnata dall’esperienza storica di Roma. Il mito virgiliano di Enea, eroe troiano che insieme al padre anziano e al piccolo figlio abbandona la città natia in fiamme e giunge nelle terre latine, è già simbolo di una continuità, della vivificante trasmissione del passato nel presente: «Être romain, c’est faire l’expérience de l’ancien comme nouveau et comme ce qui se renouvelle par sa transplantation dans un nouveau sol, transplantation qui fait de ce qui était ancien le principe de nouveaux développements. Est romaine l’expérience du commencement comme (re)commencement». Ma diversamente da quanto sembra ritenere Brague, proprio quest’anima romana dell’Europa risulta nettamente agli antipodi della mentalità messianica statunitense, che si fonda al contrario sulla rottura con le culture anteriori (si pensi alla polemica contro la «vecchia Europa» e allo sterminio dei Nativi americani) e su una pretesa di imporre nuovi valori ad avversari geopolitici ritenuti culturalmente inferiori; pretesa che riecheggia piuttosto l’atteggiamento di altezzosa superiorità dell’impero britannico verso le proprie colonie e che ben si traduce nella dottrina del cosiddetto eccezionalismo americano.

L’oblio di tale profonda «romanità» (che può essere associata anche a quella «ragionevolezza mediterranea» in cui diversi intellettuali hanno visto l’antidoto al razionalismo utilitarista anglosassone), è forse una delle cause lontane della crisi identitaria dell’Europa. In questo senso non è inopportuno osservare che nella cultura di massa europea e mondiale l’immagine prevalente dell’antica Roma sia ridotta oggi ai suoi aspetti più banali e superficiali, quando non storicamente falsi, veicolati soprattutto da quell’imponente strumento del soft power nordamericano che è l’industria cinematografica hollywodiana.

Il terzo aspetto riguarda più direttamente la realtà politico-sociale e risulta senz’altro il compito di più difficile attuazione: l’affermazione di valori comuni all’interno di organismi politici che, pur evolvendo in uno scenario multipolare, resteranno comunque segnati dalla centralità dei grandi spazi. Una prova indiretta dell’influenza che la dimensione geografica esercita sulla sfera dei valori si può riconoscere nel fatto che in Europa, come anche in Paesi industrializzati di altre aree del globo, da tempo crescono i movimenti comunitarî che si richiamano a un’idea di bene comune spesso declinata come valorizzazione del territorio locale e delle «piccole patrie», della difesa dell’ambiente e delle piccole imprese. Si tratta indubbiamente di tentativi di risposta a una globalizzazione che amplifica quello sradicamento e quella «perdita della terra», insieme concreta e metaforica, introdotta dalle rivoluzioni spaziale e industriale.

Malgrado la sua innegabile forza d’attrazione, questa variante difficilmente può costituire una valida alternativa politica. Se fosse tradotta in forme istituzionalizzate indipendenti, essa recherebbe in sé un alto potenziale di squilibrio e frammentazione, il rischio di una gestione ingovernabile di una moltitudine di entità isolate e verosimilmente in perenne conflitto. Un grande banco di prova per gli organismi politici del XXI secolo è ancora la ricerca di una coordinazione fra centro e periferie, da condursi attraverso una meditata rivalutazione dei corpi intermedi, in un processo che coinvolga tanto gli Stati nazionali al proprio interno quanto le entità sovranazionali. Il principio di sussidiarietà, inteso come mediazione tra centralismo e autonomie, è d’altronde uno dei fondamenti dell’Unione Europea. Esso sembra non aver funzionato proprio perché applicato in un quadro istituzionale economico e non politico, cioè basato sugli interessi conflittuali dei diversi Paesi e certo non sul principio In variate concordia, che formalmente rappresenta il motto dell’UE. Si può forse dire che la più grande sfida dei processi di integrazione continentali è proprio quella di rendere compatibile il senso di radicamento al territorio – presupposto forse ineludibile per l’affermazione di valori condivisi – con l’esistenza di grandi spazi metropolitani, nazionali, macroregionali. Una sfida che coinvolge ad un tempo la strategia geopolitica, i processi di innovazione tecnologica, la dimensione educativa.

In certa misura, queste tre linee direttrici potrebbero essere favorite dalla configurazione che assumerà un ordine pienamente multipolare. Se la tendenza alla costituzione di nuovi poli geopolitici dovesse affermarsi quasi esclusivamente come una redistribuzione delle sfere d’influenze – senza cioè comportare una corrispondente diversificazione globale delle culture e delle economie – dal punto di vista dei valori cambierebbe ben poco. Ma se tale processo si accompagnasse invece anche ad una riscoperta delle diverse culture del Pianeta, l’aspirazione mondialista del modello occidentale (anglosassone) e delle sue pratiche sociali ed economiche potrebbe risultarne compromessa, sospingendo anche i popoli europei a ripensare sé stessi in quanto Europei. Perché soltanto ricercando nella propria storia millenaria le ragioni per attualizzare e vivificare ciò che li ha maggiormente uniti essi potrebbero immaginare uno scenario diverso per il proprio futuro e dialogare costruttivamente con altre civiltà. Se muovendosi verso occidente il sole europeo si è diretto verso il tramonto, una sua nuova aurora potrebbe sorgere forse dall’orizzonte multipolare.


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