L’intervallo. L’innocenza reclusa di Totò e Veronica

Creato il 02 ottobre 2012 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Napoli. Il carretto passava e quell’uomo gridava granite. Ma quell’uomo, nel fisico ma non nell’età, Salvatore, non fece il suo consueto “mestiere” quel giorno. Accadde tutto un dì imprecisato in cui si ritrovò, controvoglia, ma senza possibilità di scelta, a fare da carceriere a Veronica, quindicenne ribelle colpevole di uno sgarbo al mafiosetto del quartiere. Una giornata da passare insieme e reclusi in un diroccato capannone che sarà per entrambi un lungo intervallo d’innocenza in un mondo che impone di crescere troppo in fretta.

Presentato in concorso agli “Orizzonti” di Venezia 69 e vincitore al Lido di 3 importanti premi collaterali (Premio Pasinetti come Miglior Film, Premio Fedic e Premio Fipresci), L’intervallo, opera prima di finzione di Leonardo Di Costanzo, è un film piccolo piccolo ma dal cuore grande, sobrio e poetico, dall’aspetto ingenuo ma dall’indole decisa, che su più livelli sa intrecciare e stratificare tematica e tecnica, verso un esito godibile, fresco, forma e sostanza di una “pausa” sana e nuova per il cinema italiano.

La pellicola annovera come direttore della fotografia e operatore alla macchina il sublime e inflazionato Luca Bigazzi, non plus ultra indiscusso e ricercatissimo del cinema made in Italy. E i frutti di questa presenza sono ben evidenti sin dalla prime sequenze (dominate in tutto il film dalla macchina a mano), dove si percepisce denso un tocco magistrale. Immagini e idee si scontrano e convivono con fare metodico, sintomo di una settima arte cosciente del significato (ma non la morale!) che vuole trasmettere e dell’importanza d’avere alla base un buon soggetto e una buona sceneggiatura.

Veronica e Salvatore, vittima e sentinella under 18, sono due reclusi del Sistema (come loro chiamano la mafia), piccola donna e piccolo uomo che vorrebbero continuare a godersi l’adolescenza, senza dover essere schiacciati da una grande mano invisibile ma (onni)presente che vieta e impaurisce. Lui, alto e grosso, è un pacioccone con lo sguardo imbronciato pieno di domande e carente di risposte; lei, capello al vento e scarponcino con tacco, è una donna bambina dotata di un’acerba sensualità e impaurita dallo zampettare di topolini di città. Sono accomunati dalla voglia di vivere la propria età. Ed è qui che il film si fa commovente, vero, genuino: nelle sequenze in cui confessano di temere fantasmi e spiriti, in quelle in cui si raccontano le credenze dei nonni sui tuoni che sono diavoli in carrozza o scivolati per le scale, quando immaginano un branco di gnu sui riflessi di un muro smaltato o giocano, ridicolizzandolo, a bordo di una chiatta, al reality degli isolani più famoso della Tv.

E sono sulla stessa barca anche per il loro innato e mai passato desiderio di libertà. In quell’edificio pericolante, gabbia dalle finestre arrugginite e sempre spalancate, e circondata da un giardino-boschetto arginato da una rete con squarci atti ad una fuga facile, si può volare via, proprio come gli usignoli e i cardellini di cui parla e riparla Salvatore. Ma non escono, schiavi di uno status quo che intimorisce, lega e incatena, come quel braccialetto che, verso il finale, sarà per Veronica (im)pegno d’amore e rispetto al boss del quartierino.

Ligio alle tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, il film di Leonardo Di Costanzo è uno spaccato di vita sincero e sentito, intimo e per tutti, che parte in sordina per poi abbracciarci, un piccolo grande entr’acte nel vero senso della parola, proprio come lo è il Cinema nel nostro panta rei quotidiano.

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