Definizione di “acqua”, sostantivi e aggettivi:
medium / veicolo / fatto sociale totale
Definizione di “rete irrigua”, sostantivi e aggettivi:
rete sociale / sistema socio-tecnico / evento socio-culturale
Fonte:
“La diversità delle acque. Antropologia di un bene molto comune” di Mauro Van Aken Edizioni Altravista – Lungavilla (PV) novembre 2012
Si parte da qui, da una casa editrice di Lungavilla, per parlare di acqua. E si arriva a Torre Sacchetti, località appoggiata sulla collina di Stradella, dove vive Mauro Van Aken, che è ricercatore in Antropologia Culturale presso l’Università di Milano – Bicocca. Si passa, nel mezzo, da Pakistan, Giordania, Egitto e da tutti i luoghi (tanti) che Van Aken ha conosciuto e conosce per studio. A Torre Sacchetti c’è ancora molta neve quando andiamo a bussare alla porta di Van Aken per la prima delle nostre interviste indiscrete. Poi, ma soltanto poi, penseremo che, in fondo, la neve è acqua solida.
Fuori dalla porta c’è una piccola anfora. E’ una storia d’acqua anche questa, che Van Aken ci spiegherà nel corso dell’intervista. Dentro, un camino acceso e uno spazio intimo, giocato sui gialli delle pareti e di un sole che riuscirà, forse, con un po’ di fatica, ad arrivare oltre l’inverno, sin dentro. Chiediamo un bicchier d’acqua, ma perché siamo indiscreti, non perché abbiamo sete. Vogliamo vedere che acqua circola qui: se si stappa, si svita o se sgorga. Van Aken apre il rubinetto, riempie una bottiglia di vetro trasparente e l’appoggia sul tavolo.
Parliamo di questi elementi che abbiamo davanti a noi che sono l’acqua e un libro. Quel libro è la tua ultima fatica, ma non credo sia stato una fatica…
E’ stata una fatica di lavoro e di ricerca in altri luoghi, stare in luoghi per accasarsi, di tempi.
Titolo particolare, La diversità delle acque.
Per noi l’acqua è una monodimensione. In realtà il modo in cui pensiamo l’acqua è una costruzione degli ultimi 40 – 50 anni… Il titolo l’ho reso plurale perché in tante storie culturali, e non solo per valore simbolico, da sempre le culture hanno valorizzato gli elementi della diversità dell’acqua, i suoi valori diversi, sistemi di cooperazione, ruoli di status politici, le istituzioni nate intorno all’acqua in modo molto diverso, perché l’acqua aveva ruoli che fuoriuscivano dall’acqua… Chi parla di acqua sono stati anche filosofi. L’acqua è buona da pensare, si dice in antropologia, ma è essenziale anche per motivi sociali, cooperativi, common, capacità di interrelarsi.
C’è una piccola anfora sul tavolo: da dove arriva?
Arriva da Damasco ed’è utilizzata negli spazi pubblici che sono i ristoranti popolari; questa è di creta antica e racconta tante storie della comunità ebraica di Damasco. E’ un classico oggetto dell’intimità dell’acqua, come quello che ho fuori dalla porta. Si lascia fuori una brocca di ceramica perché qualunque viandante possa abbeverarsi. Questo è un classico oggetto che tutti hanno, nelle famiglie contadine. L’acqua ha inevitabilmente a che fare con le relazioni, deve essere condivisa. Chi passa beve. La casa è onorevole se permette questo.
In questa casa ci sono altri oggetti che raccontano l’acqua?
Noi l’acqua l’abbiamo nascosta. La diamo per scontata. Abbiamo nascosto le reti dell’acqua. E’ un processo storico normale che ha fatto parte della modernità delle città. Gli agricoltori con cui lavoravo 20 anni fa qui in Oltrepò l’acqua l’avevano fuori. L’acqua ora l’abbiamo nascosta fisicamnete e ce ne siamo distanziati, ci siamo desocializzati.
Tu parli di civiltà del rubinetto nel tuo libro…
Esattamente di “Rivoluzione del rubinetto”, questo è un termine che si è utilizzato per far capire cosa succedeva in grande parte dell’Africa o nel sud del mondo negli anni ’70 e ’80 quando arrivarono i grandi progetti di modernizzazione, per cui i rubinetti andavano benissimo, erano tanti che li volevano. Ma il problema è che con il rubinetto è arrivata la centralizzazione dello Stato, il controllo dello Stato sulle acque locali.
E’ arrivato tant’altro che non c’entrava con quella cosa che ci sembra così discreta come un normale rubinetto che ci mette l’idraulico. Noi abbiamo nascosto l’acqua non solo in termini fisici, ma abbiamo nascosto il nostro rapporto più in generale con l’ambiente, con la natura. L’acqua è l’elemento della natura più relazionale. Nascondiamo ciò che erano le nostre relazioni, che vuol dire istituzioni, saperi, modi di stare assieme o di lavorare assieme; abbiamo nascosto tutto questo come se non ce ne fosse più bisogno. E poi tutt’a un tratto ne viviamo le ambivalenze. Questi temi sono quelli che vivono e con cui si scontrano molti contesti del Sud del mondo già da tempo, già dal periodo coloniale, ma soprattutto negli ultimi 20 anni.
Leggiamo qualcosa del tuo libro, un messaggio, un manifesto.
Riallacciare un percorso che relazioni altre culture per arrivare a un’Italia dove improvvisamente c’è stato un parlare d’acqua e anzi è stata una delle ultime e uniche forme di mobilitazione di senso civile attorno a qualcosa attraverso un referendum in cui, nel sì e nel no, la gente si è sentita di doversi interpellare, di dire la propria.
Direi che il messaggio è quello contenuto, non a caso, nelle conclusioni: “Difendere l’acqua come diritto o bene comune, astratta però da un diwan, un subbak, un kariz, una cisterna d’acqua indiana, da un acquedotto locale sulle Alpi italiane, può essere molto rischioso, come la storia della modernizzazione o gli irrigatori della valle ci insegnano. La perdita di common è la frammentazione o sostituzione di istituzioni pubbliche, insieme di risorse materiali o simboliche, di autorità e sistemi di cooperazione, di saperi e pratiche del territorio: e spesso, la distruzione di un common dell’acqua, come interfaccia tra natura e cultura, coincide con la perdita di spazi pubblici che non concernono solo l’acqua, ma la comunità morale nel suo insieme.
I diwan sono l’amministrazione dell’ospitalità, che ha gestito la siccità nelle zone del Medio Oriente; un subbak sono sistemi common che hanno costruito un’agricoltura intensiva a 3 raccolti all’anno di riso e con l’arrivo della modernizzazione hanno iniziato a destrutturarsi; un Kariz in Balochistan, una cisterna d’acqua indiana… In India ci sono contesti di 5000 cisterne interconnesse. Interconnesse è una parola interessante che scorre in questo libro; le reti d’acqua hanno costituito le prime reti connesse dell’umanità. Non solo India, Bali… in tutti i casi i proprietari degli acquedotti hanno dovuto pagare l’acqua a sistemi centralizzati.
In questo momento si parla molto di beni comuni. In Italia si intende in termini giuridici, in una lotta contro una privatizzazione che accentua qualcosa che è già successo: l’acqua è già privata, ce ne siamo già liberati, per così dire, ma è ancor più preoccupante che possa completamente diventare mercificata e le decisioni sull’acqua che toccano tanti aspetti della vita sociale essere in mano a qualcosa che rimane nascosto, non pubblico, non trasparente. Uso il termine common perché non è l’acqua ad essere un bene comune in sé ma la relazione fra l’acqua e le istituzioni sociali e il senso locale e i ruoli politici. O ad esempio a Bali sono i templi d’acqua con i preti che organizzano il calendario agricolo irriguo. Il fatto che ci fossero i ruoli religiosi a occuparsi d’acqua fu una delle prime ragioni nostre, della modernizzazione portata dalla Banca Mondiale, per dire: “Inevitabilmente sarà inefficace”… dimenticandoci che a casa nostra erano i Benedettini a occuparsi d’acqua o che i luoghi d’acqua sono spesso luoghi delle Chiese.
Tu hai un pozzo?
No, ce ne sono qua intorno, ma sono tutti blindati, per pericoli contingenti. Ma anche per questo nascondere; non ci sono più fontane in Oltrepò, si contano sulle dita delle mani. I luoghi d’acqua non sono più luoghi sociali…
Passeggiando… a Torre Sacchetti
L’acqua non può essere pensata e gestita in modo monodimensionale, ma che ha anche sempre avuto a che fare con
tutte le dimensioni del sociale. Molti di questi aspetti che ho imparato altrove, in realtà sono derivati anche dal mio stare in Oltrepò anche perché sono venuto in Oltrepò come vignaiolo apprendista, quando c’era ancora l’idea che le cose che hanno a che fare con l’ambiente fossero legate al sociale, all’intimo, al famigliare.
Ad esempio ognuno nel proprio campo doveva occuparsi delle acque, perché sapevano che sono fonte di vita e fonte di morte. Ognuno faceva il proprio reticolo di piccoli canali che si congiungevano a quelli dei vicini e i reticoli si congiungevano agli scoli per condurre via l’acqua senza danni, senza dilavamenti, senza creare frane. Ma quelle erano istituzioni sociali che sono state dimenticate.
Si è detto che l’Italia e l’Oltrepò si confrontano con il dissesto idrogeologico, ma quel dissesto innanzitutto è stato un dissesto sociale, prima è franata la popolazione, è scesa giù a valle è andata verso la città sono scivolati i saperi e le istituzioni, sono scivolati in senso locale di prendersi cura del territorio che era anche il proprio capitale. Non producevano solo vino prima: producevano vino e buona terra. E una buona acqua, nel senso di controllare le acque dal pericolo che potevano creare: questa ad esempio è l’idea di una common.
Oggi i canali d’acqua, se uno li fa, li fa sul suo, senza pensare che le acque nel farle andare giù hanno bisogno di un sapere comune, fatto di relazioni comuni. Questo è un esempio.
Info Point Stradella
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