L’invenzione del linguaggio. Perché furono le donne le prime a scoprirlo

Da Spiritualrationality

Cercare di capire gli esseri umani significa capire la loro unicità. La divisione netta fra esseri umani e il resto della natura è tanto vistosa che per i pensatori prescientifici costituiva una prova sufficiente che noi fossimo la parte divinamente favorita del creato – diversi, in qualche modo più vicini a Dio. Simbologia e linguaggio ci consentono di agire in una dimensione “sovrannaturale”, al di là delle attività normali di ogni altra forma di vita organica. Le nostre capacità cognitive e linguistiche sono da mettere in relazione con le dimensioni e l’organizzazione del cervello umano. Nella nostra specie sono altamente sviluppate le strutture neurali coinvolte nei processi di concettualizzazione,  di visualizzazione, di significazione, e di associazione. Come esseri umani siamo inoltre consapevoli di un mondo interiore, che sta al di là delle necessità di un corpo animale, ma le necessità evolutive hanno collocato questo mondo ben lontano dalla coscienza ordinaria.

La teoria che qui intendo esporre, è che furono le donne per prime a possedere e a dominare il misterioso potere del linguaggio. Tutto questo avveniva durante l’Epos dei cacciatori-raccoglitori arcaici approssimativamente 5000 anni prima di Cristo. Le donne, che nell’equazione cacciatori-raccoglitori del periodo Arcaico svolgevano il ruolo di raccoglitrici, subivano pressioni verso lo sviluppo del linguaggio ben più forti di quelle subite dai maschi. La caccia, prerogativa del più grande maschio, premiava la forza, la furbizia e una capacità stoica di attesa. Il cacciatore era in grado di operare abbastanza bene usando un numero molto limitato di segnali linguistici, come ancora si può osservare tra i popoli di cacciatori come gli Kung oppure i Maku. Per chi raccoglieva le cose erano diverse. Quelle donne che disponessero del maggior numero di immagini comunicabili di cibi, dei loro luoghi di provenienza e dei segreti per la loro preparazione si sarebbero indubbiamente trovate in posizione di vantaggio.

Il linguaggio può essere nato come misterioso potere posseduto per lo più dalle donne le quali trascorrevano insieme una parte molto più ampia della giornata, di solito parlando tra loro che non gli uomini. Le donne, che in ogni società sono viste come dotate della mentalità di gruppo, in contrasto con l’immagine del maschio solitario, che altro non è che la versione romanticizzata del maschio alfa del branco di primati

Le capacità linguistiche delle donne ricevevano impulso dalla necessità di ricordarsi, e di descrivere alle compagne, una serie di luoghi e di punti di riferimento, per non parlare dei numerosi particolari tassonomici e strutturali delle piante da cercare e di quelle da evitare. La complessa morfologia del mondo naturale spingeva l’evoluzione del linguaggio verso la modellazione del mondo osservato. Ancora oggi la descrizione tassonomica di una pianta è una gioia da leggere, degna delle opere di James Joyce: “arbusto alto da cm80 a m2, interamente glabro. Foglie in genere opposte, alcune a gruppi di tre o alterne superiori, sessili, linear-lanceolate o lanceolate, acute o acuminate. Fiori solitari nelle ascelle, gialli, aromatici, pedicellati. Calice campanulato, petali caduci a breve,obovate…” e così via per molte righe ancora. La profondità linguistica raggiunta dalle donne quali raccoglitrici condusse con il tempo a una scoperta portentosa: quella dell’agricoltura. Le donne si resero conto che, semplicemente, era possibile coltivare una rosa ristretta di piante. Il risultato fu che impararono soltanto le necessità di un numero limitato di vegetali, e che adottarono uno stile di vita sedentario, cominciando a scordarsi del mondo naturale che un tempo avevano conosciuto tanto bene. Fu a questo punto, probabilmente, che ebbe inizio la ritirata dal mondo naturale e che nacque il  dualismo nel rapporto tra umanità e natura. Forse uno dei posti in cui morì l’antica cultura della Dea, Çatal Hüyük in Anatolia (Turchia), potrebbe essere il posto in cui nacque l’agricoltura. In località come Çatal Hüyük o Gerico, gli umani e le piante e gli animali da loro addomesticati si separarono per la prima volta, fisicamente e psicologicamente, dalla vita della natura e dal minaccioso ignoto.

L’agricoltura porta con sé la possibilità di una sovrapproduzione, che a sua volta conduce a un surplus di ricchezza, all’accaparramento e al commercio. Il commercio dà i natali alle città; le città isolano i propri abitanti dal mondo naturale. Paradossalmente l’uso più efficiente delle risorse vegetali conseguito  grazie all’agricoltura, condusse a un distacco dal rapporto simbiotico che aveva legato gli umani alla natura. Non lo affermiamo solo come metafora: la noia della vita moderna è la conseguenza della rottura di un rapporto quasi simbiotico tra noi e la natura di Gaia. Soltanto il ripristino di questo rapporto, in una forma o un’altra, sarà in grado di portarci verso un pieno apprezzamento del nostro retaggio e verso un senso di noi stessi come esseri umani completi.

Bibliografia consigliata: Il nutrimento degli dei. Terence McKenna.


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