La destrutturazione degli strumenti portatori di terminazione bellica, la disarticolazione delle fortificazioni, il frastagliamento apparentemente mobile dell’immobilità delle trincee, la trafittura dei cieli da parte della guerra aerea e dei mari da parte della guerra sottomarina, il venire meno dei colori sgargianti distintivi delle divise degli eserciti contrapposti e la loro mescolanza in un unicum di camuffamento che si allarga a macchia d’olio uniformando quei colori, per mezzo delle nuove tecniche di mimetismo, a un terreno devastato e vulnerato, in cui la vulnerazione è la stessa dei corpi mimetizzati nell’uniformità delle divise, i telefoni sempre funzionanti (come non dimenticare quella poetica mortale, quasi da androide phildickiano, di quella comunicazione ininterrotta tra telefoni militari che apre il monumentale Europe Central di William T. Volmann) portano Stephen Kern a definire gli accadimenti del 1914/1918 come “guerra cubista”, estrema contaminazione di ideologie, di pensieri e posizioni intellettuali ed artistiche che danno vita a un golem in cui il soffio dell’arte si sposa al soffio dell’angelo della morte.
Esploratori da sempre di anfratti nascosti e obliqui del divenire spaziotemporale della storia, i Wu Ming penetrano in questo buco nero bellico e loro stessi assumono quelle tecniche di mimetizzazione per addentrarsi in un’esplorazione dei corpi e delle anime che in esso si squarciano. Quattro sono i capitoli de L’invisibile ovunque. Il primo è dimostrazione prodromica di tutto ciò che Hannah Arendt avrebbe definito, in quella porzione terminale della Seconda Guerra dei Trent’anni, come “banalità del male”, banalità che alberga nelle menti di ogni umano che ottimizza nella violenza bellica il proprio male nascosto, dall’ardito che sapientemente flette i muscoli in un’uniforme consona alla deflagrazione del corpo del nemico, al contadino bavarese che diventa aguzzino delle SS, al ragioniere serbo che si mette agli ordini del criminale di guerra Arkan “la tigre”. Il secondo è dimostrazione agghiacciante di quella vulnerazione che trafigge anime, corpi e menti che nel camuffamento dei propri pensieri, immaginato come artificio estremo di salvezza, trovano in realtà l’eterno abisso che non vede l’ora di specchiarsi negli occhi di chi ha commesso il tragico errore di osservarlo, in una mutua e reciprocamente quantistica danza di morte in cui l’osservatore è preda dell’osservato. Il terzo è ostensione di quella contaminazione del sentire novecentesca, al contempo vittima e carnefice, dell’arte, della pittura, della musica, della poesia che ha soffiato sul fuoco della creazione accorgendosi troppo tardi che sotto quel fuoco covavano, mimetizzandosi, le ceneri di mostri che avrebbero condotto gli umani alla morte auto inflitta nel tentativo di sfuggire alla terminazione imposta da quegli stessi mostri. Il quarto è debito genialmente narrativo nei confronti del Roberto Bolaňo de La letteratura nazista in America, ma anche del J. Rodolfo Wilcock de La sinagoga degli iconoclasti e del Danilo Kiš dell’Enciclopedia dei morti e anche della magnifica ossessione filmica, che oggi definiremmo, limitandola comunque, steampunk, del visionario Karel Zeman.
Forse, in un tempo che deve ancora giungere perché è già giunto, in un quadrante parallelo di un universo parallelo in questo preciso istante si sta combattendo The Great Martian War 1913-1917, versante mimetico di una eterna guerra millenaria che unisce nel dolore tutti gli universi.
Un libro.
L’invisibile ovunque, di Wu Ming (Einaudi).