Credo che ognuno di noi pensi di sapere cos’è l’ io, questa parte del Sé che sintetizziamo nel pronome che fin troppo pronunciamo: io.
Lo riferiamo all’autocoscienza di sé e non abbiamo dubbi: è quella capacità cognitiva, quella possibilità umana che se pur istintivamente ci ha resi diversi, superiori ad ogni altro essere vivente. Siamo dei Cartesiani inossidabili: “cogito ergo sum”. Quando abbiamo un figlio piccolo, aspettiamo con ansia il momento in cui dirà quella parolina magica: io, io, io. Siamo contenti e così, come ci aveva riempito di gioia sentire il suo primo vagito dopo il parto perché ci assicurava che era vivo, il suo pronunciare la parola io, lo fa persona. Prodigiosa essenza degli esseri umani.
Eppure, la neuropsicologia ha dimostrato che la consapevolezza di sé è una possibilità cognitiva molto labile e instabile, più di quanto si creda. Per la verità qualche dubbio avremmo già dovuto averlo. Scriveva Gadda in La cognizione del dolore : “ . … l ’io, io!… il più lurido di tutti i pronomi!… I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero”. Si, è vero, Gadda non amava se stesso, anzi, si detestava, però, siamo così convinti che quel bisogno che fa dire ossessivamente al bambino, io, io, io, sia veramente evolutivo, una reale differenziazione dagli animali e comunque un abbandono dei meccanismi primari?
Prima di fare alcune considerazioni dinamiche vorrei tornassimo a vedere cosa dicono gli scienziati cognitivisti su questo tema. Siamo forse tutti d’accordo nel riconoscere in Boncinelli uno dei massimi ricercatori che ci onoriamo di avere in Italia. Il Professor Edoardo Boncinelli é un genetista del San Raffaele a Milano che si è interessato ed ha scritto molto sul tema dei rapporti tra i meccanismi genetici, il sistema nervoso e il cognitivismo. Egli scriveva qualche anno fa sul Corriere Della Sera: “Utilizzando le tecniche del cosiddetto brain imaging o neuroimaging, termini di cui non esiste una traduzione affidabile in italiano, si può osservare quale parte del cervello di una persona viva, sana e sveglia sono in attività mentre quella esegue un particolare compito. In questa maniera si è potuto individuare l’ area del linguaggio, parlato o ascoltato, del riconoscimento delle forme, dell’ orientamento spaziale, dell’ esitazione, dell’ incertezza, della auto approvazione e dell’ auto riprovazione e via discorrendo. Si è così potuta ottenere una mappa molto articolata delle varie funzioni mentali e più in generale psichiche che non ha uguali nella storia. Una delle più recenti è stata l’ individuazione delle aree cerebrali connesse alla gestione del rimpianto, una componente fondamentale della nostra condotta prima e dopo il compimento di una qualsiasi azione. Una delle critiche che viene più comunemente mossa a questo approccio verte sul fatto che localizzare non vuol dire spiegare. Verissimo. Localizzare non vuol dire spiegare, ma non riuscire a localizzare può voler dire che si sta dando la caccia a qualcosa che non c’ è. Una delle cose che non si riesce a localizzare è ad esempio la coscienza, o addirittura l’ io”.
Sconcerto generale. Basta andare a leggere il vespaio mediatico che si è alzato dopo le sue “scoperte” sull’inconscio e l’ io. Ma scusate, non è la stessa cosa di quando i medici del ‘600, ‘700 dopo una autopsia affermavano: “non abbiamo visto l’anima”? Secondo me, solo l’ irrinunciabile tentazione al sincretismo teorico di questo nostro periodo storico, può giustificare la delusione alle affermazioni di Boncinelli. Perché oggi, solo un preconcetto ideologico può, forse, far dire ad una persona che si interessa di queste cose che l’inconscio, l’io, non esistono. Ci sono dimensioni che pur appartenendoci non hanno un riscontro biologico, ed è sciocco avvicinarmi a queste utilizzando strumenti che non possono né vederle né misurale.
Però, qualche dubbio sulla certezza dell’io o meglio sulla sua struttura, avrebbe dovuto venirci comunque.
Fu proprio Freud che lanciò il sasso quando mise il sospetto che non siamo totalmente consapevoli di noi stessi, introducendo l’idea dell’inconscio e di come questo interferisca su quello che pensiamo e facciamo. Diceva Freud: “non siamo padroni a casa nostra”. Voglio dire che questa sorpresa di un io un po’ sfumato, sottoposto ad una moltitudine di variabili interne ed esterne, continuamente in costruzione, è proprio un concetto psicoanalitico. Qualche anno fa ho sentito al Meeting di Rimini e li, una certa sorpresa l’ho provata io, un insigne studioso dei meccanismi mentali, il Professore Michele Di Francesco, filosofo e ricercatore che descriveva con stupore tutta una serie di agiti psicologici e stati ipnotici come fenomeni che mettevano in dubbio la struttura monolitica dell’Io. Si certo ma, se una corrente di pensiero non si fosse ancorata all’idea di poter dimostrare tutto sperimentalmente, forse, lo saprebbero da più di un secolo.
E allora? Acclarato che l’io non lo trovo con la TAC né con la PET, ci chiediamo come questo interagisce con tutto il Sé, inteso come l’unità dell’inconscio, dell’ io, del super-io, del corpo e aggiungerei , dell’anima. Insomma, quand’è che un io è sano e quando é ammalato? E, cosa comporta tutto questo da un punto di vista comportamentale e clinico? E’ chiaro che su queste tematiche si snoda la teoria psicoanalitica ma anche l’eziologia di gran parte della psichiatria. Va da sé che qui non ho la possibilità di sviluppare alcunché ma, vorrei suggerire due considerazioni: la prima sul bambino che dice io, la seconda, come la ricerca dell’io possa essere la via dell’individuazione junghiana.
Dicevo prima che come genitori gioiamo quando il bambino comincia a dire io. Pensiamo che abbia fatto un passo in avanti rispetto alla percezione di sé. Certo, rispetto a quando era totalmente fuso e confuso con la mamma, se dice io, ha già fatto tanta strada. Ma, veramente abbiamo la possibilità di percepirci, di sentire il nostro io? E’ chiaro che no, infatti se questo è in un rapporto dinamico costante con l’inconscio, non possiamo conoscere il nostro io. E allora? Possiamo conoscerci negli altri, non certo proiettando noi stessi sull’altro, come fa il narcisista ma riconoscendo l’altro diverso da noi. Noi esistiamo perché gli altri esistono. L’io esiste se siamo capaci di vedere e dire: tu. Finché il bambino vive in una dimensione onnipotente, se pur fisiologica c’è solo un magma fuso e confuso madre-bambino. Bisognerà che la madre, poi il padre e poi le istituzioni come la scuola, quotidianamente frustrino e contengano l’onnipotenza del bambino e così, come in un crogiuolo, purificheranno, limiteranno e compatteranno la struttura dell’io di quel bambino.
L’io esisterà quando il soggetto sarà riuscito a rompere il guscio della dipendenza, a differenziarsi dalla madre e sarà capace di sentire il bisogno del diverso da sé.
Ricordate la Genesi, Adamo ed Eva nel paradiso terreste, contenti come i bambini perché hanno tutto e, come i bambini si confondono e vogliono essere Dio. Poi la l’evoluzione. Crescono, si vedono, si distinguono l’uno dall’altro, si riconoscono e iniziano ad invidiare l’adulto: Dio. Cosa succede ? Dice la Bibbia: «….Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto», (Genesi 3,10) è Adamo che parla, aveva già rotto la dipendenza dall’adulto mangiando il frutto proibito.
Indi, la tragedia o la salvezza a secondo di come la interpretiamo. Adamo ed Eva vengono cacciati dal paradiso e, dice la Bibbia, col peso di una nuova condanna: “…mangerai il pane col sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra donde fosti tratto; perché sei polvere, e in polvere ritornerai”. (Genesi 3:19) Finalmente, la realtà. Insomma, è dura. Crescere è duro e faticoso ma, non ci sono altre vie, né scorciatoie.
Il problema è che se la vediamo e la sentiamo così, è solo una maledizione. Che motivo c’è per piacersi e trovare piacere in questa vita? Eppure, dice il Vangelo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi…. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero». (Mt 11,28-30) Spero che nessuno pensi che voglio inoltrarmi in disquisizioni teologiche o esegetiche. No, non ne ho i mezzi né è il mio compito. Ma vedo nel Vangelo il libro che contiene in sé il massimo del sapere psicologico. L’uomo del Vangelo è un uomo adulto, realizzato e io tento di capirne il perché. Gli spunti su questo piano sono infiniti, ne prendo uno che secondo me, ben si relaziona con il nostro tema dell’io: la discesa dello Spirito Santo, la pentecoste. Sappiamo che gli apostoli erano un gruppetto di uomini scelti con oculatezza fra quanti Gesù incontrava. Sono stati con lui per circa tre anni. Hanno visto miracoli, sentito la sua predicazione, hanno tradito, sono stati perdonati, hanno visto e constatato la resurrezione di Gesù, ebbene, dopo tutto questo, essi non sono in grado di andare per il mondo e testimoniare. Racconta la Bibbia: “Come giunse il giorno della Pentecoste, essi erano tutti riuniti con una sola mente nello stesso luogo” (Atti 2:1) aggiungerei: impauriti. Che avessero paura lo aveva già scritto Giovanni 20,19 “ La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trova vano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”….” E’ la perfetta descrizione di “adolescenti” che trovano la forza nel gruppo. Vorrebbero, ma non possono. Da soli non ce la fanno.
Quando ce la faranno? Quando ognuno di loro riconoscerà i doni che ha avuto. L’uno si vedrà diverso dall’altro ma forte nella sua individualità. Questa é la pentecoste. Allora, si apriranno le porte ed essi potranno andare per il mondo senza più paura, capaci di vivere liberi i propri carismi.
La forza è nell’essere se stessi.
E’ la strada della individuazione junghiana.
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