L'isola, Russia, 2006, Regia di Pavel Lunguine
Recensione di Alberto Bordin
La santità di chi è più figlia? Del genio, di uomini in grado di vedere con più chiarezza e verità il vero che ci sta dinnanzi; oppure della follia, di coloro dei quali la mente non appartiene più a questo mondo e alle sue regole, e che rispondono di un altro Mondo, con altre regole, un’altra intelligenza che anche professano ma senza conoscerne il vero significato, ancor prima di leggerne i segni?
Il folle in Cristo è una figura che affonda le sue radici nella cultura medievale, e come tutta quella cultura è un tarocco, una carta a due facce; genio o sregolatezza? Entrambe, forse; o nessuna delle due. E quale cultura oggigiorno può rappresentare questa drammatica dicotomia meglio di quella russa, così ambigua e schizofrenica?
Bisogna riconoscere due meriti al film di Pavel: il primo è l’intelligente ponderatezza con cui conferma e nega l’una e l’altra posizione – una continenza quasi estranea al cinema russo –; le tentazioni del mondo e la sua razionalità non trovano tiepida accondiscendenza e buonismo, ma nemmeno è vero che l’opera d’ascesi possa compiersi fuori di un’esperienza (intelligente) della fede. Il secondo è il fatto che tutto ciò non è affidato alla filosofia del pensiero, ma si radica appunto in un’esperienza, in una realtà che ferisce e segna nel suo accadere; gli uomini che ne conseguono non sono così degli intellettuali, ma consistono di una domanda e una coscienza.
La santità si vive nel rapporto con Dio; e il rapporto con Dio è sempre un rapporto con i suoi segni.