di Cristiano Abbadessa
È capitato, anche in questa sede, di discutere circa l’importanza della forma e del contenuto, ovviamente mettendo al centro della riflessione la produzione letteraria. Questa volta mi concedo una digressione per parlare di forma, e dei messaggi impliciti che questa contiene, a proposito di tutt’altro; precisamente, del rapporto fra l’istituzione e il cittadino.
Lo spunto (e come sempre prego tutti quanti di prenderlo semplicemente come tale) mi è venuto da quanto accaduto qualche sera fa. Sono infatti andato, in rappresentanza della nostra casa editrice, a discutere un progetto che, come Festival della Letteratura, abbiamo presentato a un Consiglio di Zona (non importa quale, per ora) di Milano, chiedendone il patrocinio, domandando l’agibilità di uno spazio pubblico e auspicando qualche forma di collaborazione. Non entro qui nei dettagli del progetto: quando sarà approvato (e dovrebbe essere a brevissimo) ne divulgheremo ampiamente i contenuti. Qui interessa sapere che la procedura prevede la discussione della proposta nella commissione competente (quella Cultura) per un primo parere consultivo; da lì, poi, il tutto approda in una seduta del consiglio per l’approvazione o meno. La prima tappa, quindi, è stata la discussione del progetto in commissione, con nostra partecipazione.
Apro qui una parentesi. Dopo le elezioni amministrative del 1985 ho avuto modo io stesso di far parte di una commissione del consiglio di zona. All’epoca, ai lavori della commissione partecipavano alcuni consiglieri (non molti, perché il consiglio era formato da una ventina di persone, e quindi a seguire le varie commissioni erano non più di quattro o cinque consiglieri per ciascuna), uno dei quali presiedeva la commissione stessa. Vi partecipavano poi i cittadini, a vario titolo: c’erano alcuni membri stabili (come nel mio caso), segnalati dai partiti o dalle associazioni, che a tutti gli effetti si potevano considerare componenti effettivi; c’erano poi, sempre diversi, coloro che presentavano idee e progetti, o che erano stati invitati in ragione di una particolare competenza relativa al tema in esame.
I lavori non si svolgevano seguendo rigide regole burocratiche: per la sua natura eterogenea (e per la presenza di membri effettivi “nominati”, ma non eletti) la commissione non votava; del resto, come avviene anche ora, non aveva alcun potere deliberante. Perciò si discuteva, ci si confrontava, emergevano opinioni prevalenti e altre minoritarie che il presidente si incaricava di rappresentare, poi, all’interno della seduta del consiglio, dove i partiti avrebbero (sentiti magari di nuovo i “loro” cittadini di riferimento e i consiglieri partecipanti) espresso il voto conseguente.
Le riunioni delle commissioni si svolgevano in un’auletta del “palazzo di zona”, che già all’epoca era una struttura imponente, con gli uffici decentrati dell’anagrafe, i servizi al pubblico (tra cui la biblioteca) e naturalmente le strutture amministrative, compresa l’aula del consiglio. Gli spazi riservati alle commissioni non avevano nulla di speciale: erano piccole sale con un ampio tavolo al centro, intorno al quale si sedevano tutti i membri della commissione, dal presidente ai cittadini “saltuari”, passando per i consiglieri presenti e per i cittadini membri permanenti. Le discussioni non seguivano regole protocollari: c’era un’idea, un progetto o un problema, se ne parlava, si raccoglievano le varie opinioni e si tentava una sintesi, che poteva metter tutti d’accordo o dare la misura delle eventuali divergenze.
La prima sospresa è stata vedere che, anziché verso un’aula apposita, i partecipanti si convogliavano verso la sala del consiglio. La sala, molto ampia, è una sorta di parlamentino: non assomiglia all’emiciclo di Montecitorio, ma richiama perlomeno l’aula del cosiglio regionale. Del resto gli eletti nel consiglio sono 40, e lo spazio deve essere adeguatamente ampio. È invece minuscolo, e defilato, lo spazio per il pubblico: di fronte al banco della presidenza, lungo uno dei lati corti del grande quadrilatero, tre file di sediole stanno assiepate alle spalle delle poltrone dei consiglieri.
Altra sorpresa, la constatazione che non esistono più i cittadini-membri delle commissioni. Alla seduta partecipano solo i consiglieri facenti parte di quella commissione, nel nostro caso una decina di persone. I quali, tolto il presidente di commissione che siede alla cattedra del presidente dell’assemblea, si dispongono prendendo posto nei loro abituali scranni, sparpagliati e lontani. Gli interventi avvengono con l’ausilio degli inevitabili microfoni (identici a quelli che si vedono in parlamento, con la lucina rossa in punta).
Tra il pubblico siedono solo i cittadini che, come noi, sono presenti per audizione, ovvero per presentare e spiegare una proposta. Quando va in discussione il suo progetto, l’interessato prende posto in uno dei tanti scranni liberi, possibilmente di fronte alla presidenza, così da evitare fra l’altro di sedere sui banchi fisicamente marchiati da maggioranza e opposizione; da lì, via microfono, risponde alle domande che gli vengono poste. Nonostante non abbia il potere di deliberare a titolo definitivo, infine, la commissione vota su ogni proposta secondo le canoniche procedure proprie di un’assemble elettiva.
L’effetto è abbastanza straniante. La distanza tra il cittadino e l’istituzione viene plasticamente rimarcata in tutte le forme possibili. Per giunta, la stessa distanza fra i consiglieri presenti e la loro collocazione negli abituali scranni inducono, per fortuna sempre, a un automatico schieramento partitico sulle proposte, ragionando secondo i termini di maggioranza e opposizione: se una proposta piace agli uni, gli altri debbono trovarvi qualcosa che non va, e viceversa.
Per fortuna, i contenuti riescono a volte ad andare oltre la forma. Per cui, come è capitato anche a noi, la discussione nel merito può fluire, almeno in parte, liberandosi dei pregiudizi e superando gli steccati posti dalla forma.
In tempi di lunghi dibattiti sul rapporto fra cittadini e istituzioni, rappresentati ed eletti, moderni qualunquismi e professionismo della politica, tuttavia, questa formale organizzazione dei lavori di una semplice commissione tematica del consiglio di zona mi ha colpito. Una volta vi si partecipava stando seduti attorno a un tavolo e chiacchierando, ora si partecipa a una vera seduta di un organismo, regolata da norme rigide.
La distanza, al cittadino, appare a prima vista incolmabile. E non credo sia un bene.
Forse, provare a ripensare qualche usanza e riunire le commissioni in luoghi più amichevoli e meno augusti potrebbe essere un’idea da prendere in considerazione.