Le nostre comuni vite quotidiane sono infatti “localizzate” (lavoro, affetti, amicizie), mentre le élites globali sono svincolate dai territori (leggi: gli Stati) nello svolgimento delle proprie attività (economiche e finanziarie), e sfuggono quindi al controllo politico: sono praticamente libere di fare quello che ritengono più giusto e vantaggioso.
I comuni ‘cittadini’, invece, non solo non possono trasferire le loro (poche) proprietà qui e là, ma non possono neanche svolgere il proprio lavoro stando in barca con l’ipad – devono andare in una specifica fabbrica o in uno specifico ufficio; non possono cambiare cittadinanza a piacimento; hanno difficoltà quando emigrano in quanto non conoscono 5 o 6 lingue e non hanno entrature nelle capitali globali.
Sono in una parola legati al territorio sul quale lo Stato esercita la sua sovranità. E mentre ci aspetteremmo che da questo vincolo (spesso pensato anche come vincolo di fedeltà allo Stato) discenda qualche diritto in più rispetto alle scelte politiche, è facile rendersi conto che invece accade esattamente il contrario: a proporre soluzioni politiche per il nostro paese, o a pontificare su tasse e contributi di solidarietà, a suggerire indirizzi di politiche industriali sono sempre più spesso … cittadini svizzeri.
Scandalizzarsi non serve a molto, però, di fronte a cambiamenti di questa portata. Dobbiamo fare i conti con un mondo globalizzato, che va avanti con o senza di noi. Per almeno quindici anni abbiamo fatto finta di niente, ma la soluzione non è certo chiudersi nei vecchi modelli, sperando che la globalizzazione passi da sola, o si fermi al Piave. Abbiamo fatto tanto (a mio avviso sbagliando) per impedire che gli stranieri investissero i loro capitali qui (comprassero le nostre imprese), ed oggi ci accorgiamo che straniere sono diventate le nostre stesse élites.