Oggi, probabilmente, fare un film come "Porte aperte" in Italia sarebbe molto difficile, se non impossibile. Per motivi socioculturali certo, per colpa di decenni di annichilimento spettacolar-televisivo, per il fatto stesso che la tentazione della superficie, dell'inchiesta facile e faziosa, del giudizio travestito da umorismo conciliatorio prenderebbe il sopravvento. Si dimentica la fragilità dell'uomo, anche - e soprattutto - dell'individuo di potere, una fragilità che immediatamente diventa forza. Non per niente "Porte aperte", forse uno dei più lucidi e bei film di Gianni Amelio, cita la morte vista in faccia da Dostoevskij, quel plotone di esecuzione, quell'istante sospeso e poi bloccato (e "L'Idiota" ne riporta tutte le fratture). Ma non è solo una questione di fragilità, è un fatto primariamente di sguardo. Lo sguardo di Amelio (di allora) era quello di chi credeva nella tensione morale, nel conflitto e nella passione civile, ma soprattutto in un cinema onesto che negasse completamente qualsiasi tentazione spettacolare: il cinema morale e ascetico di chi amava raccontare le cose in maniera sobria ed essenziale.
E poi c'era Gian Maria Volontè, volto imploso di un'Italia che non c'è più.