I due ambiti sono strettamente interconnessi: ad esempio, la tendenza all’accaparramento di larghi appezzamenti di terra, il land grabbing, da parte di imprese o Paesi stranieri come sta avvenendo in Africa senza regolamentazione alcuna, genera immediati conflitti ambientali con le popolazioni che ne usufruivano e scatena, sul medio termine, crisi alimentari.
Perché più terra cade nelle mani degli stranieri e meno cibo rimane per il consumo interno; più materie prime si trasformano in biocarburanti, più è difficile reperire gli alimenti locali; più aumentano i prezzi, più si specula sui mercati finanziari degli alimenti. Finché non si verificano le emergenze alimentari, che non sono affatto meno gravi che nel passato, nonostante sarebbe possibile nutrire meglio quel miliardo di persone che nel mondo soffre la fame.
Anche se l’Italia non compare nelle prime file dell’elenco dei responsabili, sempre più numerose sono le notizie circa il diffuso coinvolgimento anche delle aziende italiane nella speculazione sul cibo tramite l’acquisizione di terre fertili nel sud del mondo e la speculazione finanziaria sui mercati delle materie prime alimentari. Giulia Franchi della Campagna per una riforma della Banca Mondiale ha dichiarato al quotidiano Italia Oggi di stimare in 1,5 milioni gli ettari comprati da aziende italiane negli ultimi anni nel sud del mondo. Il fenomeno del land grabbing riguarda, infatti, anche grandi gruppi privati italiani come Eni e Benetton, Agroils e Green power attivi nel grande giro d’affari dei combustibili alternativi a quelli di origine fossile, in genere attratti dalla produzione a basso costo di agrocarburanti nel continente africano.
Secondo un rapporto pubblicato da "Action Aid" sui biocarburanti, nel 2010, il settore si è espanso rapidamente negli ultimi dieci anni anche per via degli obiettivi posti dall’Ue, e ad oggi l’Italia ne produce 2 milioni e 257 mila tonnellate l’anno. Definitivamente osteggiati dagli ambientalisti e non solo, i biocarburanti sono verdi nelle intenzioni e per nulla sostenibili nella pratica.
Secondo la ricerca “Coltivare denaro, come le banche europee e la finanza privata guadagnano dalla speculazione sul cibo e dall’accaparramento di terre”, presentata da Friends of the Earth e da altre Ong europee, come da Campagna per una riforma della Banca Mondiale, anche due grandi banche italiane come Intesa Sanpaolo e Unicredit sono attivamente coinvolte nelle speculazioni sul cibo.
Si legge nel documento che Eurizon Capital Sgr, facente capo al gruppo Intesa Sanpaolo, gestisce ben 73 diversi fondi, molti dei quali investono in materie prime alimentari quotate in borsa. Così come Fonditalia, parte di Banca Fideuram, a sua volta in parte partecipata dal gruppo Intesa-Sanpaolo, gestisce numerosi investimenti in materie prime alimentari.
Sempre secondo il rapporto di Friends of the Earth, Unicredit investe direttamente o promuove investimenti in materie prime alimentari e accordi sulle terre, attraverso il gruppo Pioneer Investments e finanzia direttamente o indirettamente aziende che operano nel settore dell’agrobusiness nei mercati emergenti. Nel Novembre 2011, il documento riporta che Unicredit stessa ha dichiarato che la dimensione del loro coinvolgimento nei mercati dei derivati delle materie prime “coltivate” si aggira su un valore netto di 91 milioni di dollari in Pioneer S.F. - EUR Commodities e di 153 milioni in Pioneer Funds - Commodity Alpha.
C’è da stupirsi? Ovviamente no, visto che le banche e i fondi d’investimento di tutto il mondo partecipano alla speculazione sul cibo che già da qualche anno si è rivelata estremamente redditizia ed è ad oggi, non solo perfettamente legale, ma anzi completamente integrata in quell’approccio liberista all’agricoltura che ancora gode di grande influenza, nonostante i gravi danni provocati. Queste operazioni sono infatti avvenute negli anni con la sostanziale connivenza di una larga fetta di quegli operatori internazionali come la Banca Mondiale o la FAO che avrebbero dovuto difendere, e a volte addirittura creare, la sovranità alimentare dei paesi più poveri senza riuscirci.
I conflitti ambientali e alimentari generati dall’acquisto di terre in paesi stranieri si assomigliano tutti tra di loro: questo genere di massicci investimenti esteri non dimostrano attenzione per le comunità locali e le loro necessità. Di recente, l’associazione Crocevia impegnata sul tema del land grabbing ha raccontato la storia di un’azienda a partecipazione italiana, la Senathol Abe Italia, che è finita nel bel mezzo di aspre polemiche e proteste in Senegal per via della concessione da parte del consiglio rurale di 20.000 ettari di terre fertili per la coltivazione della jatropha su appezzamenti che prima erano terre comunitarie, utilizzate da tutti per i pascoli e per le attività agricole.
Attualmente, e anche per via della morte di una persona durante gli scontri, il progetto è stato sospeso, probabilmente solo per essere riproposto tra breve. Ciò non toglie che le comunità rurali necessitano di un quadro di riferimento normativo, al di là dei loro governanti, a cui appellarsi per difendere il loro utilizzo delle terre pubbliche anche quando non esistono leggi in patria. Ed è compito della comunità internazionale fornire queste indicazioni.
di Sara Seganti
Fonte: altrenotizie