L’italia mette in vendita le proprie riserve auree mentre la prospettiva del gold standard diviene sempre più credibile

Creato il 31 gennaio 2014 da Eurasia @eurasiarivista
:::: Giacomo Gabellini :::: 31 gennaio, 2014 ::::  

Nell’estate del 2012, mentre infuocava la crisi della zona-euro, il presidente russo Vladimir Putin affermò che «Si deve riconoscere che non si vede alcuna opzione per superare l’attuale crisi economica globale» (1). Putin pronunciò queste parole dopo aver speso oltre 500 milioni di dollari al mese per tutti i cinque anni precedenti allo scopo di accrescere le riserve auree russe, in modo da diversificare gli attivi nazionali al di fuori di dollari ed euro. La Repubblica Popolare Cinese ha fatto lo stesso, accumulando ulteriori 500 tonnellate di oro dal gennaio al luglio 2012, nel tentativo di tutelarsi dai rischi valutari connessi alle enormi riserve di “capitale fittizio” espresso in divisa statunitense detenute dalla People’s Bank of China. «Le mie fonti – sostiene il gestore di fondi a Hong Kong William Kaye, ex di Goldman Sachs – mi dicono che, contrariamente alle cifre ufficiali disponibili, la Cina possiede fra 4.000 e 8.000 tonnellate di oro fisico. Non solo i cinesi sono i più grandi produttori di oro, ma sono anche i maggiori importatori di oro al mondo» (2).

Kaye rivela anche che una parte consistente dell’immane quantità di oro immagazzinata dalla Cina provenga dalla Federal Reserve, che nel corso degli anni si sarebbe sbarazzata progressivamente (addirittura fino all’esaurimento!), delle proprie riserve auree.
Già nel novembre del 2011, per la verità, il Venezuela aveva attuato l’operazione “Oro Patrio”, attraverso la quale il Paese sudamericano riprese il controllo fisico di circa 30 tonnellate del proprio oro che erano conservate prevalentemente in Gran Bretagna, Francia, Lussemburgo e Svizzera. La decisione risaliva al mese di agosto, quando Hugo Chavez aveva firmato una legge che prevedeva la nazionalizzazione dello sfruttamento delle riserve aurifere del Venezuela, e successivamente sostenuto che a causa delle eccessive turbolenze economiche e politiche che affliggevano l’Europa, era giunto il momento di mettere in salvo le riserve auree venezuelane custodite nel “vecchio continente”, trasferendole in nazioni alleate come la Russia, la Cina o il Brasile. Incoraggiati dall’atteggiamento tenuto da Russia, Cina e Venezuela e dalla effettiva “disconnessione” tra domanda fisica e andamento dei prezzi dovuta alla massiccia speculazione promossa dalla Fed a sostegno del dollaro, anche i magnati George Soros, Warren Buffett, e John Paulson hanno drasticamente alleggerito i propri investimenti azionati acquistando oro per oltre 150 milioni di dollari a testa. La Pacific Investment Management Company (PIMCO), grande società di gestione degli investimenti (gestisce oltre 2.000 miliardi di dollari), ha incrementato la quota in oro presente nel suo Commodity Total Return Fund, portandola dal 10,5% degli attivi totali del giugno 2012 all’11,5% dell’agosto dello stesso anno. Nel gennaio 2013, la Germania (che possiede ufficialmente le seconde riserve auree mondiali, quantificabili in circa 3.396 tonnellate per un valore di 133 miliardi di euro) ha pubblicamente notificato l’intenzione di porre, entro il 2020, almeno metà delle proprie riserve auree sotto il proprio controllo diretto, subito prima che la Bundesbank inoltrasse una richiesta relativa al rimpatrio del proprio oro dai depositi negli Stati Uniti e in Francia, nel tentativo di riportare nelle casse tedesche ben 374 tonnellate d’oro (11% del totale) da Parigi ed altre 300 (8% del totale) da New York (ove ne rimarrà depositato il 37% del totale, con il rimanente 13% depositato in Gran Bretagna). Ciò testimonia un calo di fiducia reciproca tra le principali Banche Centrali suscettibile di insinuare un certo nervosismo tra gli operatori finanziari, i quali potrebbero leggere questa mossa tattica in parallelo a quanto accadde quando la Francia di Charles De Gaulle ritirò il proprio oro dagli Stati Uniti e convertì tutta la propria riserva in valuta pregiata contribuendo a far crollare il sistema monetario nato a Bretton Woods nel 1944. La decisione della Bundesbank di porre i lingotti sotto il proprio controllo diretto, evitando qualsiasi tipo di intermediazione, costituisce quindi un avvertimento per gli investitori.

«La scelta tedesca – osserva l’analista finanziario Jim Sinclair – rappresenta un incoraggiamento generale a prendere (o riprendere) il controllo dell’oro, indipendentemente da chi lo custodisca. Quando la Francia lo fece, anni fa,  si sparse il panico tra la leadership finanziaria americana. La storia guarderà a questo recupero come all’inizio della fine di un dollaro considerato come valuta di riserva privilegiata» (3).

Oltre a Sinclair, anche altri numerosi analisti hanno espresso l’opinione secondo cui l’attività frenetica che Cina, Russia, Germania e i più noti finanzieri a livello mondiale hanno messo in atto attorno all’oro, rappresenterebbe una chiara dimostrazione del fatto che il mondo si stia avviando verso l’adozione di un nuovo Gold Standard rivisitato e corretto, ma non privo di punti di contatto con il sistema monetario che rimase in vigore fino al 1931. Nel 2012, infatti, le banche hanno aumentato le loro riserve nette di 536 tonnellate, acquistando più lingotti d’oro in termini di volume che in qualsiasi altro anno dall’epoca del crollo di Bretton Woods.
L’abbassamento dei tassi di interesse attuato dalla BCE nonostante la forte contrarietà espressa della Germania evidenzia inoltre il fatto che la vicinanza ideologica tra gli attori accomunati dal promuovere strenuamente varie forme di quantitative easing (Stati Uniti, Giappone, Inghilterra e BCE) cozza in maniera vigorosa con la marcata inclinazione anti-inflazionistica di Berlino, che sembra cercare di tutelarsi in prospettiva di un ipotetico collasso della moneta unica europea rimpatriando il proprio ore e spingendo per l’instaurazione di un sistema monetario internazionale fondato sui principi del vecchio Gold Standard (come osservato in precedenza). Come osserva l’acuto analista Ambrose Evans-Pritchard:

«A differenza di Gran Bretagna [in seguito al “divorzio” tra governo e Bank of England attuato dal ministro delle Finanze Gordon Brown tutti i membri del Commonwealth cominciarono a vendere le proprie riserve auree] nel 1998, Spagna, Svizzera, Olanda e altri, la Germania non ha venduto nessuno dei suoi lingotti d’oro, quando questo era di moda. E nemmeno l’Italia. I due Paesi ora possono stare seduti su riserve sostanziali che stanno iniziando ad assumere un significato politico» (4).

L’Italia, tuttavia, rischia di perdere definitivamente questo immenso capitale strategico per via di un incredibile decreto legge volto a modificare l’assetto dei proprietari della Banca d’Italia, controllata (come osservato in precedenza) dai più potenti cartelli finanziari operanti all’interno del Paese, Intesa-Sanpaolo e Unicredit in primis. Il provvedimento varato dall’esecutivo guidato da Enrico Letta prevede infatti un’enorme concessione agli istituti bancari in attesa degli stress-test comunitari, rappresentata dalla rivalutazione del valore nominale della quota societaria della Banca d’Italia attraverso una ricapitalizzazione gratuita da 156.000 a 7,5 miliardi di euro da attingere alle riserve della stessa Banca Centrale. In base al decreto legge, sarà attuato un programma di ripartizione del capitale della Banca d’Italia in quote nominative di partecipazione del taglio di 20.000 euro ciascuna, completato il quale verrà introdotto il divieto per ogni azionista di detenere quote superiori al 3% delle azioni. Siccome la partecipazione di Intesa-Sanpaolo e Unicredit al capitale della Banca d’Italia ammonta complessivamente a circa il 60%, si è pensato bene di aiutare tali istituti a piazzare le loro plusvalenze (quantificabili in circa 3 miliardi di euro) risultanti dalla rivalutazione del capitale della Banca Centrale e dalla fissazione del tetto massimo sulle azioni imponendo la stessa Banca d’Italia come acquirente temporaneo di tutte le quote in eccesso. Banca d’Italia, «Al fine di favorire il rispetto dei limiti di partecipazione al proprio capitale, può acquistare temporaneamente [versando a Unicredit e a Intesa-Sanpaolo una cifra complessiva superiore ai 4 miliardi di euro] le proprie quote di partecipazione e stipulare contratti aventi ad oggetto le medesime» (5), recita il decreto. Se si pensa che nel 2005 era stata approvata una legge (la 262/2005), mai applicata, che prevedeva la ri-nazionalizzazione della Banca d’Italia con il passaggio del 100% delle quote dai privati allo Stato Italiano, si comprende agevolmente come questa manovra rappresenti in tutta evidenza un colossale “regalo” ai due grandi istituti in questione finalizzato a consolidare il loro potere in vista dell’imminente “unione bancaria” che rischia di sancire la conquista del comparto bancario “periferico” da parte di quello “centrale”, con l’aggravante che la vendita delle quote legate alla ricapitalizzazione (basata sul nulla) della Banca d’Italia equivale di fatto a una creazione di liquidità ex nihilo che anziché andare a vantaggio dello Stato verrà integralmente incassata da Intesa-Sanpaolo e Unicredit. L’aspetto più distruttivo di questa manovra, che si ricollega al tema centrale dell’oro, è tuttavia rappresentato dal fatto che gli azionisti della Banca d’Italia potranno mettere le mani sulla riserva aurea detenuta da Palazzo Koch (che ammonta a circa 2.450 tonnellate), privando il Paese di un strumento che potrebbe rivelarsi fondamentale in un futuro non troppo lontano, come puntualmente sottolineato da Evans-Pritchard.
Privarsi dei lingotti in mentre Paesi come la Germania e la Russia premono per l’istituzione di un nuovo Gold Standard rappresenta senza dubbio una mossa strategicamente suicida.

1) “Russia Today”, 9 luglio 2012.
2) “Ticino Live”, 5 novembre 2013.
3) “Daily Telegraph”, 15 gennaio 2013.
4) Ibidem.
5) Decreto Legge del 30 novembre 2013, n.133, Disposizioni urgenti concernenti l’IMU, l’alienazione di immobili pubblici e la Banca d’Italia.

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