L'Italia unita a tavola

Creato il 26 maggio 2011 da Alboino
Più per curiosità che per altro, nel celebrare il 150° dell’Unità d’Italia, un quesito rilancia l’attualità di un tema peculiare del nostro Paese: esiste una cucina nazionale? Se si guarda ai prodotti tipici locali, dovremmo dire che l’Italia non ha una vera e propria cucina nazionale, ma come osservato anche fra i fornelli siamo un popolo unito nella diversità. E’ vero: la cucina italiana non può essere definita e classificata sotto un modello unico e di questo ben consapevoli ne sono gli storici che vedono gli italiani come un popolo diviso da infinite diversità. E’ innegabile però che pur nella diversità si può affermare che “si mangia italiano” e questo è testimoniato dalla considerazione che la nostra cucina ha all’estero e dalla stessa attrattiva che gode quando i turisti arrivano in Italia con l’intento di mangiare italiano. Di più se si guardano le statistiche il settore agro-alimentare italiano gode ottima salute nei confronti dell’export. Vien quasi da dire che se differenti sono le cucine (si va dalla regionale, fin giù giù alla locale) unico è lo stile che ha origini molto più antiche del 1861 anno cardine dell’unificazione.
C’è un testo che è insieme punto di partenza e coagulo di tutta la cucina italiana, un testo che vide la luce nel lontano 1891 a firme di quello che è ritenuto l’archetipo di tutta la nostra cucina: Pellegrino Artusi con il suo “La scienza in cucina e l’Arte del mangiar bene” è stato per la cucina italiana quello che “I Promessi sposi” è stato per il linguaggio. Pellegrino Artusi romagnolo di Forlimpopoli (dove peraltro oggigiorno ha sede la rinomata Accademia Artusiana) pubblicò a proprie spese e in mille copie quello che da lì a poco sarebbe diventato un classico non solo in cucina ma più in generale un classico della letteratura (di genere). Difatti più che le ricette e la preparazione dei piatti, ad Artusi piace raccontare la genesi e lo sviluppo della cucina tradizionale, dal momento che (come egli preferisce descriversi) non è né un gourmet, né un grande chef. A dimostrazione basta leggere l’introduzione di Piero Camporesi all’edizione Einaudi del 1991 del “ricettario” artusiano: “il valore socio-educativo di un manuale che non è soltanto un libro di cucina come tanti altri: accanto a Cuore e Pinocchio è uno dei massimi prodotti della società italiana del secondo Ottocento, una di quelle bibbie popolari che il moderatismo sociale italiano ha espresso per la costruzione di un cittadino fabbricato secondo i postulati dell’etica borghese”. E’ il ritratto di un Artusi che attraverso la cucina cerca di unificare a suo modo l’Italia; ancora Camporesi dall’introduzione: “Oltre a essere quel delizioso ricettario che tutti, almeno di nome, conoscono, punto fermo della tradizione cucinaria italiana, perfetto manuale di alimentazione saporita e, insieme, equilibrata, svolse anche, un modo discreto, sotterraneo, impalpabile, il civilissimo compito di unire e amalgamare, in cucina prima e poi, a livello d’inconscio collettivo, nelle piaghe insondate della coscienza popolare, l’eterogenea accozzaglia delle genti che solo formalmente si dichiaravano italiane”. Ed è vero, a suo modo Artusi ha riunito almeno a tavola gli italiani; infatti se le sue ricette (475 nella prima edizione, diventate nell’ultima e definitiva 790) sono tipicamente regionali è tutto il contorno, dalla preparazione, dalle origini dei prodotti, dal modo in cui vengono servite che vi è una caratteristica tipicamente nazionale.
Certo è il modo di raccontare di Pellegrino Artusi che ha convinto le genti italiche ad avere pur nella diversità un’unica cucina, il romagnolo sapeva parlare alla pancia della gente che ricordiamolo in quegli anni aveva tremendamente bisogno di essere “sfamata”. Artusi era un italiano felice e questo suo modo di essere lo trasmise a tutti gli altri attraverso il suo ricettario: “Tipo soave e curioso, anticlericale e mazziniano senza eccessi, corpulento moderato perfettamente a suo agio in quel torpido Risorgimento postprandiale che fu il conformismo umbertino, di sé diffondeva un’immagine tutta compostezza e senso del limite. Ma, benché non fosse un crapulone, mangiare era la sua attività prediletta”. O quasi dal momento che Pellegrino oltre la cucina “amava” molto le donne e insieme al mangiare praticava altra attività con domestiche, sartine o vedove non proprio inconsolabili. “Scapolo inflessibile. Progressista. Favorevole al divorzio. Menava vanto di non esser mai andato al bordello e di non aver mai picchiato una donna”. Si deve ad un altro romagnolo di razza (questa volta in negativo) il Passator cortese se ad un certo punto della sua esistenza Artusi dovette abbandonare la quieta Frolimpopoli per trasferirsi in quel di Firenze. Infatti il 25 gennaio del 1851 il Passatore con la sua banda di delinquenti fecero visita proprio a Forlimpopoli e nel razziare quello che c’era da razziare si fermarono anche a violentare una sorella di Artusi, Gertrude che per lo shock impazzì. Morirà nel manicomio di Pesaro e questa vicenda pesò molto nella decisione della famiglia Artusi di trasferirsi in Toscana. Ed è qui nella Firenze di fine secolo che Artusi si dedica alla sua prima attività: la cucina. Setacciava i mercati e si cucinava da solo, cavia di se stesso, sperimentando accostamenti e sapori che provenivano da ricette raccolte per tutta Italia in case e trattorie. Altra peculiarità di Artusi, infatti, fu quella di non frequentare mai ristoranti rinomati e di gran classe ma osterie di infima qualità e da tale frequentazione che egli saprà ben dosare nel suo ricettario piatti ricchi e piatti popolari. Agli occhi di Artusi che tralascia in un cantone quasi nascosto le vicissitudini degli anni dell’unificazione, l’Italia unita è un immenso mosaico di leccornie.

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