di Michele Marsonet. Penso sia difficile trovare nel nostro vocabolario una parola più odiata e vituperata di “guerra”. Non sempre è stato così. Basta conoscere un po’ di storia per capire che, nell’intero corso dell’evoluzione biologica e, soprattutto, culturale, troviamo popoli e civiltà che dell’abilità bellica facevano il centro il dell’azione e della loro concezione del mondo. Né si vergognavano di questo, ritenendolo anzi un fatto del tutto naturale.
Senza dubbio la possibilità dell’olocausto nucleare ha contribuito in modo decisivo a un cambiamento di prospettiva radicale che ha coinvolto sempre più, a partire dalla fine del conflitto mondiale, governi e popolazioni. Non tutti, però. La guerra globale “combattuta a pezzi”, per usare l’efficace espressione di Papa Francesco, è più un dato reale che una semplice battuta. Essa registra puntualmente quanto sta avvenendo contemporaneamente in molti scacchieri internazionali, lasciando intravedere il pericolo che si possa infine giungere a una deflagrazione generale.
Il pacifismo con le sue infinite sfumature reagisce proponendo un percorso condiviso in grado di annullare il pericolo. Al centro del suo discorso si colloca la convinzione che le cause dei conflitti armati siano “sempre” individuabili con estrema precisione. A generare le guerre sono in primo luogo la povertà e l’ignoranza, e alle due piaghe suddette vanno ricondotti anche il fanatismo (religioso e non), il nazionalismo (nelle sue tante forme), la volontà di potenza tematizzata da Nietzsche, in particolare quando si manifesta nel desiderio di conquistare spazi territoriali ritenuti – a ragione o a torto – di esclusiva proprietà di una certa nazione.
Il problema è che quel “sempre” abbinato nel precedente paragrafo a povertà e ignoranza risulta assai meno esplicativo di quanto appaia a prima vista. Non è detto che una società ricca e ad alto tasso di scolarizzazione sia, ipso facto, anche una società pacifica. E pure un altro termine chiave prima usato, “condivisione”, risulta alquanto problematico. Per garantirne l’efficacia, la condivisione dev’essere realmente universale, senza residui di sorta. Se è parziale, come sempre accade, non risolve affatto il problema.
Di ciò sono sempre stati ben consci i vari teorici degli ideali utopici. Per Marx e seguaci era evidente che la liberazione degli esseri umani dal bisogno poteva essere realizzata solo a livello globale ponendo allora fine, e non certo per caso, alla possibilità stessa delle guerre. Su un piano diverso, e fatte le dovute distinzioni, il cristianesimo si pone obiettivi analoghi, nella convinzione che la cultura dell’amore possa infine prevalere ovunque e porre termine ai motivi che generano ostilità sia tra singoli individui sia tra interi popoli.
Un articolo di Goffredo Buccini apparso di recente sul “Corriere della Sera” mi ha colpito perché esprime con efficacia tali sentimenti. Per l’autore è difficile negare che libertà dalla fame e dalla paura, dignità e integrità della persona siano valori universali accessibili a tutti. Ne consegue che “una ragazza afghana preferirà di gran lunga togliere il burqa e sciogliere i capelli sul prato di un campus se solo avrà la possibilità di scegliere. Che un piccolo martire palestinese indosserà più volentieri una maglietta del Barcellona che una cintura di dinamite se sarà libero di optare. Si diventa fondamentalisti per vuoto d’anima o di stomaco”.
Ma è davvero così? I dubbi, per quanto mi riguarda, sono tanti. Una simile visione non tiene conto delle pulsioni aggressive che ogni essere umano si porta dentro, e che ritroviamo puntualmente in natura e nelle altre specie animali che ci circondano. Per staccarci completamente dal mondo naturale e diventare creature dedite solo alla pace e alla fratellanza, dovremmo intraprendere un enorme sforzo pedagogico in grado di educare tutti i nostri simili a intraprendere quella strada. Con il rischio concreto, come si vede in questo periodo così tragico, di sentirci accusare di volontà egemonica, di voler imporre agli altri un’immagine del mondo che è nostra, ma non loro.
Sul piano concreto oggi si parla molto, in Occidente, di “politiche inclusive”. Tale espressione è il pilastro principale della politica estera dell’ex Segretario di Stato Hillary Clinton, la quale la utilizza in continuazione nel suo libro autobiografico “Scelte difficili”. Lo stesso vale per l’attuale Presidente americano che, per citare un caso più limitato, giudica un governo “inclusivo” come unico metodo per porre fine al caos in Iraq (e anche altrove). Che succede, però, se gli attori sul campo rifiutano di fasi “includere” preferendo mantenere, o addirittura sottolineare, idee e valori che li separano?
Non sono affatto convinto che “si diventa fondamentalisti per vuoto d’anima o di stomaco”. Può pure essere vero in alcuni casi, ma non certo in tutti. Lo si diventa perché colpiti da un messaggio che promette soluzioni definitive. Lo si diventa perché convinti di avere valori superiori a tutti gli altri. E spesso lo si diventa per dare uno sfogo visibile, e legittimato da qualche autorità, alle proprie pulsioni aggressive.
Il discorso dell’inclusività a ogni costo, della necessità di convincere altri circa il disinteresse delle nostre scelte, viene dai più giudicato in aree differenti del mondo come l’ennesimo tentativo occidentale di imporre a tutti un certo stile di vita e – diciamolo pure – una certa filosofia. Un atteggiamento realista, pur se meno attraente sul piano delle idee, può essere più efficace su quello dei risultati concreti.