Articolo di Gianni Minà apparso il 16 maggio, su Il Fatto quotidiano, con il titolo “I cubani che scoprirono il terrorismo Usa”
Caro Direttore,
questa volta ti chiedo spazio per raccontare una storia emblematica che spiega quanto sia crudele l’embargo Usa nella vita di Cuba.
Alla metà degli anni ’90 le attività terroristiche dei gruppi che dalla Florida e dal New Jersey organizzavano attentati e provocazioni lungo le coste di Cuba, con la complicità della famigerata Fondazione cubano-americana di Miami, erano diventate così numerose e pericolose che il governo de l’Avana fu costretto a prendere due decisioni fondamentali.
La prima fu quella di infiltrare, nelle maglie della società nordamericana, cinque agenti dell’intelligence che, rinunciando per un lungo lasso di tempo alla loro vita personale e rompendo ufficialmente con le loro famiglie e il loro paese, cercassero di scoprire dove nasceva l’eversione per poterla neutralizzare.
La seconda decisione impegnò invece in prima persona Fidel Castro che chiese al premio Nobel della letteratura Gabriel García Márquez se poteva essere latore di un messaggio informale a Bill Clinton.
L’allora presidente degli Stati Uniti aveva, infatti, più volte dichiarato di essere un lettore fedele delle opere del grande scrittore colombiano, tanto da tenere i suoi romanzi sul comodino e di non addormentarsi senza leggerne una pagina.
A queste dichiarazioni erano seguiti diversi inviti a Márquez, che aveva trascorso perfino un week end ospite dei Clinton, con il collega messicano Carlos Fuentes, all’isola Martha’s Vineyard.
Márquez in quegli incontri aveva spiegato Cuba al Presidente e aveva espresso le aspettative che i popoli a sud del Texas nutrivano, dopo gli anni crudeli dell’Operación Cóndor, l’annientamento delle opposizioni latinoamericane benedetto da Nixon e Kissinger, e dopo la stagione del “reaganismo”.
Ma Clinton, che (come il premier spagnolo Aznar) aveva avuto un consistente contributo elettorale proprio dalla Fondazione cubana-americana, non aveva potuto mantenere le sue promesse di un cambio di rapporto con l’isola della Revolución e nemmeno di una reale apertura nelle politiche con l’America latina.
Così non per caso, quella volta, nella primavera del ‘98, il Gabo, alla fine dei suoi seminari all’Università di Princeton, non riuscì’ a incontrare, come al solito, il suo amico Presidente e dovette accontentarsi di consegnare il delicato messaggio di Fidel Castro allo staff della Casa Bianca.
Nel frattempo, Gerardo Hernandez, René Gonzales, Fernando Gonzales, Antonio Guerrero e Ramon Labañino, i cinque agenti dell’intelligence cubana, avevano portato a termine la loro pericolosa missione. Le risultanze della loro ricerca erano apparse subito così delicate anche per la plateale connivenza di alcuni organi federali Usa, che il governo cubano si era visto costretto, attraverso la diplomazia sotterranea che non ha mai cessato di funzionare fra i due Paesi, a chiedere un incontro fra le parti. Una delegazione dell’Fbi volò all’Avana per ricevere una copia dei dossier raccolti. Ma dopo che questa documentazione fu esaminata, il governo di Washington, invece di catturare Luis Posada Carriles, Orlando Bosch, Santiago Alvares, Rodolfo Frometa o i Fratelli del Riscatto (Brothers to the Rescue) di José Basulto, veri Bin Laden latinoamericani, decise l’arresto dei cinque cubani che avevano individuato le centrali terroristiche attive in Florida.
La loro odissea era appena cominciata. Dovettero aspettare 33 mesi, 17 dei quali in isolamento e 4 settimane nell’hueco (il buco, una cella di 2 metri x 2 dove la luce è sempre accesa) prima di essere rinviati a giudizio per spionaggio. Il loro ritorno in una cella normale fu possibile solo grazie a una campagna internazionale alla quale parteciparono un centinaio di deputati laburisti inglesi e Nadine Gordimer, scrittrice sudafricana, anch’essa Nobel per la Letteratura.
Non mosse un dito invece Freedom House, uno degli organismi sovvenzionati dal NED, l’agenzia di propaganda della Cia, che ha la presunzione, ogni anno, di dare le pagelle sulla democrazia e la libertà di informazione nei vari paesi. Tacquero anche i Reporters sans frontières, sempre latitanti nelle battaglie per le violazioni dei diritti umani commessi dagli Usa.
Il processo fu una vera farsa con esplicite minacce e aggressioni ad alcuni giurati e condanne inaudite a vari ergastoli per i Cinque.
L’avvocato Leonard Weinglass, difensore di Antonio Guerrero e vecchio combattente per i diritti civili (è stato il difensore di Mumia, di Angela Davis, dei cinque di Chicago) affermò che erano stati violati il 5° e il 6° emendamento della Costituzione del Paese.
Non era una esagerazione. Nell’agosto del 2005, infatti, tre giudici della Corte d’Appello federale di Atlanta che ha giurisdizione sulla Florida (e che potevano intervenire solo se avessero accertato, come è avvenuto, errori legali e di diritto commessi nel primo giudizio) revocarono la sentenza espressa dal Tribunale di Miami nella primavera del 2003, chiedendo un nuovo dibattimento in una città diversa e meno condizionata dall’odio. Sottolinearono, infatti, che non c’era stata diffusione di informazioni militari segrete e che non era stata messa in pericolo la sicurezza degli Stati Uniti.
I cinque cubani, in attesa di un nuovo giudizio, non furono però liberati. Un anno dopo, ancora la Corte d’Appello di Atlanta, allargata a nove membri per le pressioni del ministro della Giustizia Alberto Gonzales, grande propugnatore del “diritto a praticare la tortura” delle forze armate Usa, revocò a sua volta la decisione presa dai giudici Stanley Birch, Phyllis Kravitch e James Oakes che, dodici mesi prima, “nell’interesse dell’etica e della giustizia” avevano dichiarato nulla la condanna per spionaggio emessa contro i Cinque a Miami.
Di fatto, il caso fu congelato e spedito alla Corte Suprema con un’istanza per la revisione del processo accompagnata da interventi di “amici della Corte” (amicus curiae brief), firmati da dieci premi Nobel e dalla ex commissaria per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.
Ma tutto questo non è servito a nulla. Il 5 giugno 2009 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha infatti annunciato, senza motivazioni, la sua decisione di non riesaminare il caso dei Cinque.
L’avvocato Weinglass ha denunciato ancora una volta la latitanza, fin dall’inizio, dei mezzi di informazione in un caso che pure toccava importanti questioni di politica estera e di terrorismo internazionale.
Non a caso, il 3 marzo 2004, il più prestigioso intellettuale degli Stati Uniti Noam Chomsky, l’ex ministro della Giustizia Ramsey Clark, il vescovo protestante di Detroit Thomas Gumbleton, il Nobel della Pace Rigoberta Menchú ed altre personalità, avevano dovuto comprare, per sessanta mila dollari, una pagina pubblicitaria del New York Times, per far conoscere finalmente questa storia nascosta fin dall’inizio all’opinione pubblica.
Nella pagina ci si chiedeva: “E’ possibile essere imprigionati negli Stati Uniti per aver lottato contro il terrorismo?”. E la risposta sotto era: “Si, se combatti il terrorismo di Miami”.
Negli ultimi sei anni non è cambiato nulla. Ma Obama ha vinto in Florida, e persino a Miami, senza l’aiuto, come fu per Bush jr., della Corte Suprema e senza l’appoggio dei gruppi della destra eversiva della Florida.
Sarebbe semplice per lui dimostrare che la politica estera del suo governo non è condizionata dai terroristi legati alla Fondazione cubano–americana di Miami, autori, in questi anni, di 681 attentati , che hanno assassinato 3478 persone, e ferito altre 2000.
Per ora, Obama, ha incontrato solo i “duri” di Miami.
Sarebbe utopistico sperare in un cambio di politica?
Pubblicato qua, sul Blog, per voi utenti da: Nicolò Ollino