L’omofobia non esiste.

Creato il 13 marzo 2015 da Alby87

https://www.youtube.com/watch?v=XwslLBfFvJM

Mi sembrava giusto iniziare così. Ovvio, l’omofobia esiste, esiste anche in Italia ed è un problema in Italia: meno che in certe parti del mondo, più che in certe altre. Ma che esista e sia un problema, quello è ovvio.

Tutti quanti siamo stati a scuola, no? Io non credo di essere vissuto in una situazione particolarmente anomala, sono cresciuto in una media città del sud Italia, e ho visto l’omofobia continuamente. Nelle scuole, soprattutto fra i ragazzi delle medie e delle superiori, “gay” è regolarmente usato come insulto. A volte scherzoso, più spesso invece maligno. Il ragazzo un po’ timido della classe viene chiamato con nomignoli femminili, termini come “frocio”, “checca” o “ricchione” (questo da me andava molto di moda) li abbiamo sentiti tutti, in certi ambienti con regolarità quotidiana. Sappiamo benissimo che è ancora difficile dire ai propri genitori di essere gay, non sappiamo che reazione potrebbero avere, c’è gente che è stata cacciata di casa, o mandata dallo strizzacervelli (mi rifiuto di usare il termine “psicoterapeuta” per certi soggetti), nel migliore dei casi un piantolino possiamo comunque aspettarcelo. Ci sono anche altri problemi e altri rischi evidenti, ma fermiamoci qui per ora.

È sufficiente per dire che, cazzo, esiste sì l’omofobia, è evidentissimo. Ed è un problema.

Eppure no.

Spesso se ne dubita. Non è un problema l’omofobia che vediamo, oppure quella non è vera omofobia: l’omofobia sono le aggressioni, per la precisione quelle in cui la vittima va all’ospedale o ci scappa il morto. In tutti gli altri casi non è omofobia; licenziamenti o minacce di licenziamenti? Non è omofobia. Insulti, offese, umiliazioni pubbliche? Non è omofobia. Diffamazioni, false accuse, bugie sul mondo LGBT? Manco quella è omofobia. Discriminazione di stato, restrizioni nell’accesso ai diritti civili e all’istituto familiare? Neanche quella è omofobia.

È omofobia solo se devono intervenire i carabinieri.

Bene. Mi rendo conto delle difficoltà di questo argomento, quindi perdonatemi se ora divago.

Ora si parlerà insieme di depressione clinica.

La depressione è una patologia psichiatrica che affligge o ha afflitto suppergiù il 7% della popolazione, prevalentemente donne ma sicuramente anche moltissimi uomini. Può essere endogena, ovvero dovuta a fattori esclusivamente fisiologici, oppure reattiva, in quel caso è dovuta ad un evento scatenante, tipicamente un trauma. Presenta un alto livello di familiarità che suggerisce una concausa genetica; come altri tratti psicologici e comportamentali, si presume che sia di norma frutto di un’interazione geni-ambiente: in soggetti geneticamente predisposti eventi traumatici possono scatenare la depressione clinica.

Tutto questo per ora è marginale.

Voglio parlarvi piuttosto di cosa significa la depressione. Con qualche numero, e anche con qualcosa di più dei numeri.

Negli USA la depressione maggiore causa l’8.3% degli anni vissuti con disabilità, una misura degli anni di vita “persi” dalla popolazione per via di un disturbo invalidante. Questo già dovrebbe darci un’idea di che tipo di disturbo è la depressione, ovvero una malattia potenzialmente invalidante; ma può essere anche peggio, in realtà.

La persona depressa passa la maggior parte del proprio tempo in uno stato di disperazione più o meno totale. Attenzione, è importante capire cosa si intende per stati di disperazione: non stiamo parlando di qualche giorno o qualche settimana di malumore, o del fisiologico periodo di lutto dopo la perdita di una persona cara, di essere un po’ giù dopo un licenziamento. Si parla di depressione quando la disperazione, quale che ne sia la causa, non smette praticamente mai e dura mesi o anni, diventando parte integrante dell’esistenza della persona.

Parliamo di persone che per mesi o anni ogni giorno si svegliano e vorrebbero non essersi mai svegliate. Dal momento in cui si alzano a quello in cui si addormentano sono tristi e prive di energie. Gli sembra che la vita non valga nulla, perdono interesse per tutte le cose belle che prima davano loro piacere; di solito perdono la libido, vanno frequentemente incontro a disturbi dell’alimentazione (mangiano troppo per distrarsi, oppure perdono l’appetito), con conseguenti danni alla forma e alla salute fisiche. La perdita di energia si può spesso riflettere sul lavoro: la persona depressa può avere problemi a svolgere le proprie mansioni lavorative, con conseguenti danni anche alla carriera che aumentano ancora il problema della depressione. Come se non bastasse, anche le relazioni umane vengono spesso danneggiate; il partner può non reggere il peso di convivere con una persona malata e decidere di abbandonarla, difficilmente nuovi partner si avvicineranno, e se è per questo neanche altri amici. Generalmente, la persona depressa finisce col passare la maggior parte del proprio tempo a desiderare di morire, e in molti casi a fare fantasie di suicidio.

Una soluzione sono spesso gli psicofarmaci, ma si tratta di droghe mica da niente, che non passano senza chiedere al corpo alcuni sacrifici. I disturbi più frequenti collegati all’assunzione di antidepressivi sono disfunzioni metaboliche (ritenzione idrica, aumento fuori controllo di peso e/o di appetito) e sessuali (tipicamente anorgasmia e orgasmo ritardato, ma in casi più problematici anche impotenza totale). D’altro canto, non prenderli può essere anche peggio; una situazione di stress così costante tende quasi sempre a sfiancare il fisico che soffre per l’assenza di sonno, per l’alimentazione sbagliata e per l’abbassamento delle difese immunitarie causato dallo stress; ovviamente un altro rischio collegato, soprattutto nelle persone di mezza età, è l’ipertensione arteriosa. Si rischia insomma anche che si rompa un capillare nel posto sbagliato e ci si resti secchi.

Ma non sono sicuro che sia questo il modo preferito della depressione per uccidere le proprie vittime. Perdonatemi se uso statistiche americane, ma sono le più facili da trovare e sono probabilmente del tutto analoghe in Italia: il suicidio è la seconda causa di morte nei soggetti fra i quindici e i ventiquattro anni di età; si stima che ogni anno nel mondo duecentocinquantamila-settecentocinquantamila persone tentino il suicidio, generalmente sono soggetti depressi. Fattori di rischio per il suicidio sono … No, facciamo che di questo ne parliamo dopo. Piuttosto entriamo un po’ più in risonanza emotiva sulla questione, perché anche i numeri più impressionanti smuovono poco se non si capisce di che stiamo parlando.

Questo sito, in Inglese raccoglie storie di suicidi o potenziali suicidi. La gente semplicemente scrive la propria testimonianza, spesso di come ha tentato il suicidio, come e perché ha fallito, oppure come progetta di farlo se ha quello in mente, e per quali ragioni. Avverto che non è per persone impressionabili; non c’è nulla di grafico, ma alcune delle persone che hanno scritto su quel sito si sono effettivamente uccise, e ogni volta che qualcuno smette di scrivere lì e lascia la conversazione nei commenti in sospeso noi sappiamo che può voler dire che alla fine l’ha fatto. Alcuni hanno cercato di intervenire e consolare anche molto dopo che il fatto era compiuto, parlando letteralmente con un morto che non risponderà mai. Tuttavia io consiglio vivamente una lettura di quel sito. Anche prima di finire di leggere qui.

“Ma dove vuoi arrivare? Al fatto che il tasso di tentati suicidi fra omosessuali è stimato fra il 30 e il 40%?”

Sì, i numeri sono quelli, si stima che un omosessuale su tre tenti il suicidio o quanto meno lo pianifichi seriamente, e ciò si traduce in un tasso di suicidi più o meno doppio all’interno della popolazione omosessuale. Per la mia esperienza personale trovo queste cifre molto credibili. Ma avrei potuto sparar subito lì quel numero che già da solo è abbastanza terrificante, o anche un’altra stima del genere, tanto sono tutte tremende, se era lì che volevo arrivare. Perché ho perso tempo a divagare tanto sulla depressione e sul suicidio?

Perché quel numero non serve a un cazzo di niente se non abbiamo capito di che cos’è che stiamo davvero parlando. La maggior parte dei tentati suicidi non riesce … Dobbiamo esserne contenti? Non ne sono sicuro. Il punto è che se uno è arrivato a vincere l’istinto di sopravvivenza pur di uscire dalla vita, vuol dire che la sua vita è diventata un inferno. È quell’inferno, solo quello, che mi interessa che la gente veda. Il resto viene di conseguenza.

Dopo che ti sei fatto un’idea di a che livello di sofferenza possa arrivare l’anima, allora puoi capire e condannare nella sua vera gravità qualsiasi tipo di violenza psicologica; solo allora puoi sperare di capire che la violenza fisica non è affatto necessaria a causare immensa sofferenza ad una persona … e perfino ad ucciderla.

Se gli omosessuali si suicidano il doppio degli eterosessuali, sorge una domanda interessante: com’è successo che l’omosessuale tenda a vivere la vita come fosse un inferno molto più facilmente?

Perché ormai troppe volte ho sentito la tiritera che l’omofobia non c’è o non è un problema perché ci sono poche aggressioni o addirittura (questa è tragicomica) “ci sono poche denunce”. Non dovete andare a contare le denunce per valutare il problema omofobia, dovete andare a contare i suicidi e i tentati suicidi, quello dà una misura del problema.

Ma ancora oggi, il più delle volte, tirare in ballo la sofferenza psicologica, e chiedere comprensione e rispetto per la sofferenza psicologica, è un gioco d’azzardo. Non è questione di gay, questa, è più generale. Spesso, e dico davvero spesso, frasi come “sono depresso” o “vorrei morire” fruttano a chi le usa autentiche aggressioni verbali: “lo dice per farsi commiserare”, “non sa quali sono i veri problemi della vita”, “ma che ragione ha lui di soffrire?”
Nell’anonimato di internet questo tipo di risposte perfide sono perfettamente nella norma.

Poi un giorno uno si suicida. A volte, a quel punto, il linciaggio si ferma. Ma spesso continua. Anche dopo che si è suicidato “era un vigliacco”, “era un debole”, “persone così fragili non sono adatte a vivere”… O nella versione edulcorata: “tutti quanti sono sottoposti a pressioni di questo tipo, è lui che non l’ha tollerata”; come dire, il dolore cui è andato incontro è perfettamente normale, ma era un cesso lui, era inevitabile (per inciso, no, non stiamo parlando di livelli di dolore ordinari; e no, non sempre era inevitabile; spesso sono anche individuabili specifiche responsabilità sociali nei fenomeni di suicidio).

Le risposte di quel tipo sembrano davvero eccessivamente, inutilmente crudeli. No, lo sono, sono veramente crudeli come sembra. Ma bisogna chiedersi perché una persona possa dire cose così cattive, infierendo sulla sofferenza altrui in questo modo. Nessuno si sognerebbe di andare da un amputato a dirgli che il suo è un problema da niente, che deve solo alzarsi e provare a correre e se non ce la fa, e va be’, è selezione naturale, deve schiattare.

Eppure la differenza nei due casi è solo dove sta la causa disabilità: nelle gambe per l’amputato, nel cervello per il depresso. Poi nulla vieta che l’amputato sia anche depresso, ovviamente …

Ma un dolore che sta “solo” nel cervello di solito non è sufficiente  scatenare la reazione di empatia. Non si tocca, non si vede, non si quantifica; non scatta l’empatia se non vediamo un moncherino sanguinante. Il che è curioso, se uno ci pensa, perché in effetti il dolore è sempre un dolore “nel cervello”, è il cervello l’organo della sofferenza, come quello del piacere… Forse il desiderio di non riconoscere la sofferenza nel prossimo è tipicamente umano.

Secondo me, l’amore di Cristo per gli uomini è una specie di miracolo impossibile sulla terra. Vero è che egli era Dio. Ma noi non siamo dèi. Supponiamo, per esempio, che io soffra profondamente: un’altra persona non potrà mai sapere fino a che punto io soffra, perché lui è un’altra persona e non è me, e, soprattutto, è raro che un uomo sia disposto a riconoscere in un altro un uomo che soffre (come se si trattasse di un’onorificenza). Perché non è disposto a farlo, tu che ne pensi? Perché, ad esempio, ho un cattivo odore, perché ho una faccia stupida, o perché una volta gli ho pestato un piede.

E poi c’è sofferenza e sofferenza: una sofferenza degradante, umiliante come la fame, per esempio, il mio benefattore me la può ancora concedere, forse, ma quando la sofferenza è a uno stadio superiore, quando, per esempio, si soffre per un’idea, quella non me la accetterà, perché, diciamo, dandomi un’occhiata, ha visto che non ho affatto la faccia che, secondo la sua immaginazione, dovrebbe avere una persona che soffre per un’idea. E quindi egli mi priva immediatamente dei suoi favori, e non si può dire che lo faccia per cattiveria. I mendicanti, soprattutto quelli nobili, non dovrebbero mai mostrarsi, ma dovrebbero chiedere l’elemosina rimanendo nascosti dietro i giornali. Si può amare il prossimo in astratto, a volte anche da lontano, ma da vicino è quasi sempre impossibile. Se tutto fosse come a teatro, nei balletti, dove, quando appaiono mendicanti, essi indossano stracci di seta e pizzi lacerati e chiedono l’elemosina danzando leggiadramente, be’, in tal caso, li si potrebbe ancora ammirare. Ammirare, ma non amare.

(Dostoevskij, I fratelli Karamazov)

E non è forse vero che il dolore del prossimo ci richiama alla fatica di amare, alle responsabilità di amare, alla difficoltà di amare? Qualcuno che soffre è un problema, se soffre e lo amiamo davvero, allora dobbiamo occuparci di lui, o quanto meno cercare di non farlo soffrire. Come facciamo a sentirci nobili quando il prossimo soffre e noi non facciamo niente, o addirittura infieriamo? Dunque è meglio far finta che non ci siano problemi, che non soffra affatto. Men che meno possiamo riconosce l’esistenza di problemi così intangibili e vaghi come il malessere psicologico!

Eppure il malessere psicologico esiste. E spesso uccide.

Torniamo dove avevamo cominciato, l’omofobia. Com’era la storia… Ah, sì, non esiste, o non è un problema serio.

Il 30% dei suicidi è dovuto a conflitti con la propria identità sessuale. Nove omosessuali su dieci riportano di essere stati bullizzati a scuola. Altre stime: in particolare, gli omosessuali che non sono stati accettati in famiglia hanno probabilità di tentare il suicidio otto volte più alta, probabilità sei volte più alta di soffrire di depressione clinica e tre volte più alta di cadere nell’alcolismo o nell’abuso di droghe, rispetto a omosessuali che hanno il sostegno dei familiari. Ci sono anche alcune stime più basse, eh. Altre più alte ancora. Ma stiamo parlando comunque di numeri che normalmente darebbero i brividi. Abbastanza perché quando qualcuno si suicida e non sappiamo perché, la prima domanda che ci facciamo sia “ma non sarà mica stato omosessuale?”

Tutto questo non è un problema serio. Dopotutto, che cos’è mai essere chiamato gay dai compagni di classe? Che cos’è mai rinunciare ad una vita sessuale o sentimentale, oppure averla e doverla vivere di nascosto come ladri per paura del giudizio? Che cos’è mai se qualcuno ti urla dietro che sei frocio per strada, se ti guardano male al ristorante, se all’interno di un locale gay un eterosessuale ti mette le mani addosso insultandoti per il tuo orientamento (sì, mi è successo)?

Questa non è mica sofferenza vera. Fateci vedere il sangue!

Poi quando c’è il suicidio … toh, ma come sarà successo? Era un ragazzo tanto normale e allegro! Ironicamente, in molti casi non si saprà nemmeno che era omosessuale.

Sì, che sarà mai: non succede forse anche ai ragazzi grassottelli o occhialuti o timidi di essere presi in giro dai compagni di classe?

Ok, ci sto, presente: io a scuola ero grassottello, occhialuto, timido. E anche gay, ma questo non era affatto evidente dai miei comportamenti, beninteso. Solo che io non ricordo una volta che mi abbiano detto “palla di lardo” o “quattrocchi”. In compenso, “gay” me l’hanno detto fino alla nausea. E, dato ancora più interessante … per quanto ne sapessero loro, io non ero manco gay.

Ma soprattutto, se qualcuno ti prende in giro per gli occhiali puoi dirlo ai tuoi genitori senza nessuna paura. Ma di essere stato preso in giro perché “gay” no, soprattutto se è vero. Parlare di una discriminazione dovuta all’omosessualità coi genitori, o con chiunque altro, per un ragazzino è un rischio enorme; perché ricordiamoci che per l’omosessuale spesso nemmeno in casa propria c’è tregua. Rischia di sentirsi dire “ti dicono che sei gay? E tu mostragli che sei un vero uomo!”, che significa semplicemente piegarsi alla logica del carnefice e confermare al ragazzo che, effettivamente, essere gay è la cosa più vergognosa della terra e neanche il genitore in quel caso sarebbe dalla sua parte. Il genitore gli dice così che sta dalla sua parte perché non è gay, a condizione che non sia gay. Forse che il ragazzino non sente dire ai propri genitori esattamente le stesse cose che dicono amici e compagni di classe? Magari in forma meno volgare, magari, soltanto, quando appare un esponente LGBT in TV iniziano a pontificare su quanto la società stia andando in malora per colpa di questa gente malata di mente che distrugge i nostri sani valori cristiani e blablablà yakyakyak. Ma il messaggio è lo stesso: c’è un errore, sei sbagliato, devi vergognarti.

Sì, io ero grassottello, timido, occhialuto, e non era una pacchia. Ma quello era niente; quando scoprii di essere anche gay ricordo che iniziai a perdere i capelli, attirando i commenti sorpresi del dermatologo “di solito si perdono per lo stress, ma alla tua età non si è così stressati, di solito succede ai quarantenni”.

Invece sì, se sei gay ti può succedere normalmente a tredici anni. E a volte anche se non lo sei, perché il bullismo omofobico non ha strettamente bisogno che la vittima sia omosessuale, basta che su di essa aleggi il sospetto che possa esserlo.

E a proposito, visto che abbiamo il nostro Adinolfi che si lamenta di essere obeso e che quella sì è vera discriminazione, quella contro i gay no (delizioso che faccia la gara a chi è più discriminato; ma non è certo il buon gusto la dote per cui è celebrato Marione), restiamo sugli obesi. Ve lo ricordate tutti il caso del ragazzino obeso mandato in ospedale dopo che gli hanno infilato un compressore d’aria nel sedere?

Certo, era obeso. Ma sapete che cosa significa simbolicamente infilare un oggetto in culo a qualcuno contro la sua volontà, vero?

Si chiama stupro anale. E quando è diretto contro maschi è un gesto dal valore simbolico molto, molto chiaro: significa negare la mascolinità della vittima.

Non sto qui dicendo che il ragazzo era gay, sto dicendo che quel gesto significava “non sei un vero uomo”. Sì, sicuramente discriminazione contro un obeso, ma molto ironicamente ci siamo scordati di dire un’altra cosa importante: quello era un atto di bullismo omofobico. Il ragazzino non rispondeva agli standard di virilità imposti dall’ambiente, e dunque doveva essere sottoposto ad umiliazione pubblica.
Generalmente il ragazzino più introverso e fragile della classe, oppure di un’altra razza o grassottello o di un’altra religione eccetera, viene immediatamente chiamato gay con scopo di offesa e soggetto a umiliazioni di questo genere; fortunatamente di solito meno violente. Che è già fatto grave di suo, ma è ancora più grave se poi gay lo è davvero, e non solo: è psicologicamente devastante anche per eventuali altri omosessuali che a tutto ciò assistano a margine. Non vorranno mai essere come quel poveretto! “I gay? Poverini, che brutta disgrazia!”

La violenza subita dagli omosessuali, nella maggior parte dei casi, non è fisica. C’è anche quella, per carità, la violenza fisica esiste, e devo ammettere che è anche pittoresco mostrare la bella foto di un gay pestato, quello sì che fa colpo.

Ma la violenza più devastante che subisce l’omosessuale in Italia e nel mondo è quella psicologica: la paura, il nascondersi, a volte la rinuncia completa ad una sana vita sessuale e sentimentale … questi sono traumi psicologici prolungati. Su questo tipo di traumi si innestano poi i disturbi psichiatrici come la depressione e i disturbi della personalità. Sui disturbi psichiatrici si innesta il suicidio. E quando non si innesta il suicidio, si soffre comunque come cani, ovviamente, e i livelli di sofferenza possono essere così elevati che a volte ti viene da pensare “mah… forse forse il suicidio ci starebbe pure”.
E no, non è un segno di particolare fragilità non riuscire a passare attraverso quel tipo di stress incolumi. Semmai è un segno di particolare forza riuscirci.

Non dovrebbe essere così complicato capire questo meccanismo, anche perché in teoria tutti prima o poi abbiamo sperimentato un dolore di tipo “psicologico” e sappiamo quanto possa far male. Il punto però è che quando si parla di contarlo, di numerarlo, di quantificarlo, lì si fatica. E forse il problema non è affatto quantificarlo, renderlo “oggettivo”, trasformarlo in foto raccapriccianti, amputazioni, sangue ed ematomi. Il problema è semplicemente capirlo, immedesimarsi.

Ma capirlo significa ammettere che bisognerebbe agire per combatterlo, o quanto meno ammettere, invece, che non ce ne frega molto, o addirittura che non ce ne frega niente. Che non è molto bello; ve lo immaginate Maroni a dichiarare “se un gay si suicida non me ne fotte un cazzo”? Io no. Ma coma fa a raccontare, e a raccontarsi, che qualcosa gliene frega, quando non fa niente per alleviare il problema e anzi fa tutto ciò che può per peggiorarlo? Dunque non resta che sminuire il problema, negarlo: l’omofobia non esiste se non ci sono (tante) coltellate e (tanto) sangue. Sono solo insulti, paura, vergogna, umiliazione, stigma… È tutto normale, la società non deve intervenire.

Anzi, dato che ci siamo, la società si può pure permettere di ospitare le pacifiche manifestazioni delle Sentinelle in Piedi; la società si può anche permettere, quando viene proposto un progetto di lotta al bullismo omofobico nelle scuole, di lamentarsi e ostacolarlo.

Be’, chi vuole pulirsi la coscienza con scuse tipo che nell’ultimo mese nessuno è stato denunciato per violenza omofobica e quindi l’omofobia non esiste continuerà sempre a farlo. Giù di stracci, detergente ed olio di gomito e la coscienza sarà pulita come una “camera bianca” per la lavorazione dei microchip.
Ma non col mio permesso, io se ci passo dentro cagherò sul pavimento.

Hai voglia a lavare…

Ossequi



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